Obama: The Betrayal of a Handshake

Edited by Keith Armstrong

 

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Una stretta di mano può cambiare i rapporti nello stretto della Florida. Circolano ormai da due giorni la foto e il video dello storico gesto di amicizia e stima fra Raul Castro e Barack Obama, in occasione dei funerali di Stato di Nelson Mandela. Che le esequie del leader sudafricano si potessero trasformare in una sorta di festival della sinistra internazionale era cosa ben prevedibile. Proprio mentre la statua di Lenin veniva abbattuta simbolicamente dalla piazza ucraina, spazzando via uno dei residui del vecchio sistema rosso, leader fuori dal tempo come Robert Mugabe e Raul Castro hanno colto l’occasione sudafricana per far credere che il loro vecchio messaggio rivoluzionario sia ancora vivo e carico di prospettive.

Per crederlo si devono chiudere entrambi gli occhi sulla realtà dei Paesi che governano. Lo Zimbabwe di Mugabe, in particolar modo, è un anacronistico esempio di “afro-comunismo”, nella sua variante maoista. Un sistema che ha prodotto, oltre alla violenza contro i dissidenti e la cacciata degli agricoltori bianchi, anche il più alto tasso di disoccupazione al mondo e l’inflazione peggiore della storia recente, peggiore addirittura di quella tedesca degli anni ’20. Quanto a Cuba, nonostante le gratuite vanterie sul sistema sanitario “fra i migliori al mondo” (ma negli ospedali manca tutto e i pazienti devono portarsi il necessario da casa), le città cascano a pezzi, le auto che circolano sono ancora quelle anni ’50 di prima della rivoluzione, la casa, nonostante le liberalizzazioni, è ancora un grave problema per tutti.

Quanti ancora credano nella rivoluzione non è dato saperlo: non è possibile votare, né con la matita alle urna, né coi piedi andandosene. Una manifestazione di fedeltà ai vecchi ideali marxisti-leninisti, alla storia delle rivoluzioni contro il colonialismo e l’imperialismo, l’apartheid e il capitalismo, era, appunto, molto prevedibile. Molto meno prevedibile, invece, la stretta di mano fra Raul Castro e Barack Obama. L’amministrazione Usa non ha mai fatto mistero della sua linea morbida: allentamento delle sanzioni, forse anche una fine graduale dell’embargo sono politiche sempre nell’aria, anche se mai dichiarate ufficialmente.

Sono le circostanze e le azioni del regime cubano che impediscono di portarle avanti sino in fondo. Ci sono le riforme in atto: è vero. Raul Castro ha liberalizzato case, visti di uscita e alcune attività imprenditoriali. Ha riformato il sistema monetario, abolendo il doppio corso. Il regime dell’Avana è relativamente sulla buona strada. Ma di democrazia non si parla nemmeno. Di vera libertà di emigrare neppure: la possibilità di uscire dal Paese è e resta sempre a discrezione delle autorità politiche. Non c’è ancora spazio per gli oppositori: Oswaldo Paya è morto appena un anno fa, in circostanze che il regime non rivela, silenziando anche la figlia e tutti i testimoni.

La politica estera di Cuba è tutt’altro che amichevole nei confronti degli Usa. Proprio l’estate scorsa, una partita illegale di armi in trasferimento da Cuba alla Corea del Nord, era stata fermata a Panama. E questo è avvenuto proprio pochi mesi dopo la violenta crisi nucleare con il regime di Pyongyang. L’esportazione della rivoluzione cubana nel Sud America continua a vivere sempre nuove primavere, con il Venezuela, la Bolivia, l’Ecuador, tutti Paesi governati da uomini vicini a Castro nei fini e nei metodi. Se della Bolivia si parla poco (ma quel poco che si vede è una tragedia) e l’Ecuador resta democratico, il Venezuela, con Maduro, sta vivendo il suo inverno comunista, con sequestri, arresti, nazionalizzazioni forzate, saccheggi di supermercati volutamente tollerati dal governo bolivariano.

Il tutto avviene con la benedizione di Cuba. Nel nome di cosa? Della creazione di un nuovo blocco americano esplicitamente contrapposto agli Stati Uniti. È a questo regime e a chi lo rappresenta che Barack Obama ha stretto la mano. Ignorando, fra l’altro, i sentimenti e le speranze di quel milione e passa di cubani che vivono negli Usa. E che, dal loro presidente, si aspetterebbero un messaggio di libertà, non di complicità con i loro aguzzini.

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