That Deceit of ‘American Hustle,’ the Negative Side of the US

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Amore e inganno. Amicizia e inganno. O forse inganno e basta. Come dietro ogni piega della vita. Come in ogni piega di una quotidianità individuale o collettiva. Quel leggero confine oscillante tra la verità e ciò che sembra vero. Tra spontaneità e artificio. Quella soglia vacillante e labile che sa di truffa o di illusione. E la truffa, come l’illusione, al cinema, hanno sempre avuto parti di grande rilievo. Per American Hustle – L’apparenza inganna di David Owen Russell, il regista che l’anno scorso portò all’Oscar Jennifer Lawrence con Il lato positivo, c’è chi ha scomodato perfino La stangata di George Roy Hill che, nel 1974, di statuette ne vinse ben sette. In realtà, la celebre pellicola con Robert Redford e Paul Newman, indiscussi sex symbol di quegli anni, nulla ha a che spartire con il film di Russell.

American Hustle va oltre la truffa. Oltre l’inganno. E da uno spunto, tratto da uno scandalo realmente accaduto negli Stati Uniti, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, che smascherò la corruzione della politica, si passa – come nel costume di Russell – alla parafrasi dell’inganno nelle vite quotidiane. Il “caso Abscam”, come venne denominato, fu infatti un’operazione dell’Fbi sotto copertura, nella quale due agenti collaborarono con il truffatore Melvin Weinberg, creando una compagnia telefonica di proprietà di un falso sceicco arabo, per offrire tangenti in cambio di favori politici. La tresca diede i suoi frutti perché sei membri della Camera dei rappresentanti degli Usa e un senatore caddero nel tranello, furono giudicati e ritenuti colpevoli. Oltre a loro fu invischiato anche il sindaco di Camden, nel New Jersey.

Nella versione di Russell, Irving Rosenfeld (Christian Bale) è un imbroglione che, d’intesa con la socia nonché amante Sydney Prosser (Amy Adams), tesse truffe di ogni genere finché viene assoldato dal detective Richie Di Maso (Bradley Cooper) dal quale i due ottengono una sorta di impunibilità, se accettano di aiutarlo a mettere alle corde il sindaco italo-americano Carmine Polito (Jeremy Renner), sospettato di intrighi con il boss della malavita organizzata (Robert De Niro). A far saltare il banco ci si metterà però Rosalyn Rosenfeld (Jennifer Lawrence), moglie tradita di Irving, che si scontrerà faccia a faccia con la rivale, rischiando di mandare a gambe all’aria il piano politico, a causa dei suoi ormai sfilacciati rapporti coniugali e sentimentali con il marito.

Tuttavia, ridurre American hustle a un intrigo a metà strada fra il poliziesco e il politico sarebbe ridimensionare a torto un film che, pur non essendo un capolavoro assoluto, non è certo disprezzabile, a dispetto delle due ore e un quarto di durata complessiva. L’inganno che l’Fbi tende a parlamentari, senatori e sindaci per avere le prove della loro colpevolezza non è altro che una falsariga, forse perfino una metafora o un artificio, per calare la dinamica dell’inganno e della truffa fin nel profondo delle vite più comuni. E, all’apparenza, così normali.

Sono pura illusione e reale inganno i meriti che tende ad auto attribuirsi l’agente Bradley Cooper, regolarmente messo ai margini e quasi alla berlina, dalla coppia di falsari che stanno allestendo un maxi affare per scoperchiare gli illeciti della classe politica. E’ inganno – matrimoniale stavolta – quello in cui cade la bella Rosalyn, trascurata da Irving, che le preferisce l’ammaliante Sydney, ma non ha il coraggio di prendere di petto la situazione. E’ inganno – sentimentale tuttavia – quello in cui cade Richie Di Maso che s’invaghisce di Sydney, salvo poi scoprire che è l’amante del truffatore, suo complice. E’ inganno l’amicizia tra Irving, ambiguo per mestiere, e il sindaco Carmine Polito, scoperto proprio grazie allo stratagemma ordito da quel finto sodale di feste e scorribande. Ed è inganno anche il matrimonio tra Carmine e Dolly che ignora gli affari loschi di un marito, da lei creduto un esempio di cristallina onestà. Ed è inganno anche quello in cui cade lo spettatore stesso che, al di là dell’intreccio truffaldino su cui si regge l’intera trama del film, si scoprirà curioso di sapere se il legame di Irving con Sydney sopravvivrà alla crisi matrimoniale con Rosalyn, oppure se il politically correct avrà la meglio nei puritani States.

L’amore è uno dei motivi portanti dell’intero American hustle e viene scandagliato in ogni traccia. “Quando sei innamorato sai di essere molto più della semplice somma delle parti. E accade qualcosa di divino” spiega lo stesso Russell che va oltre l’idillio e cerca di raccontare che cosa accade a una coppia quando s’imbatte nei problemi concreti della vita. Quando essere speciali l’uno per l’altra consente di superare scogli all’apparenza insormontabili. O fa affogare. E lo spettatore finisce per innamorarsi del loro stesso amore e della loro stessa passione, fino a chiedersi senza sosta se in quella crociata dell’illegalità contro l’illegalità, riusciranno a salvare anche loro stessi.

Il film che ha già fatto incetta di candidature – ma l’anno scorso Il lato positivo sempre di Russell totalizzò otto nomination vincendo però un solo Oscar – ha una colonna sonora straordinaria che spazia da Jeep’s blues di Duke Ellington a Dirty work di Steely Dan, da Delilah di Tom Jones agli Electric light orchestra, a un’indimenticabile versione di Live and let die di Paul McCartney sulle movenze, decise ma sensuali, di una Jennifer Lawrence, cui i truccatori hanno aggiunto una decina d’anni abbondanti a quelli dell’anagrafe dell’attrice nata a Louisville nell’agosto 1990. Le musiche, tipiche riesumazioni degli anni ’70, con la rivalutazione di brani e autori spesso poco conosciuti, sono motivo di contrasto con le azioni che accompagnano, come spesso accade con Russell, meticoloso e attento nella scelta dei brani.

Costumi e acconciature, studiate nel dettaglio, contribuiscono a ricreare l’atmosfera dell’epoca. Russell non si è limitato a un attento esame degli abiti, ma ha preteso che gli attori si adeguassero anche fisicamente ai ruoli che svolgevano. Così Jennifer Lawrence viene invecchiata, Christian Bale è stato costretto a ingrassare di venti chili e a presentarsi sul grande schermo rammollito e slabbrato, con un riporto inguardabile e occhiali oggi improponibili. Bradley Cooper si è sottoposto a una permanente che ne ha arricciato i capelli trasformandone la fisionomia e Amy Adams ignora completamente l’esistenza e l’uso del reggiseno per tutto il film, incarnando quel ruolo di femme fatale che l’attrice americana nata a Vicenza, dove era di stanza suo padre, ufficiale della Nato, può certo permettersi. Oggi a quelle origini italiane cui l’attrice è rimasta affezionata, la mamma Amy Adams ha reso omaggio in maniera “americana”, infliggendo alla figlia il nome di Aviana. Appunto la sede Nato dove la famiglia viveva quando fu concepita Amy. Ma questo è un altro film…

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