Teorema Youtube
—Luca Celada, 11.2.2014 —
Avendo testimoniato in prima persona l’effetto che nell’ultimo decennio internet ha avuto sul giornalismo televisivo, una mezza idea dell’impatto della rivoluzione digitale sui media tradizionali ce l’avrei. Si tratta di una trasformazione radicale che ha rivoluzionato in pochi anni modalita’ di produzione e di lavoro, contenuti, fruizione e in generale il modello economico dei contenuti audiovisivi che per mezzo secolo erano monoplio dalla TV. Il nuovo mondo coraggioso di internet e’ ancora in via di definizione ma e’ nondimeno quello in cui ormai ci troviamo tutti a vivere e di cui il simbolo e putativo modello come tutti sanno sarebbe Youtube. Come la rete in generale, il servizio di videosharing sta completando una transizione da democratica open source ad un modello commerciale innescato dalla sua acquisizione da parte do Google nel 2006 per $1,6 miliardi. Da allora, pur perpetuando un’immagine di “foro sociale” libero e orizzontale, il gigante di Mountain View sta lavorando per trasformare quello che era un contenitore “planetario” di video amatoriali e non filtrati, in una rete piu’ patinata e soprattutto piu’ commerciabile. In quest’ottica Youtube ha intrapreso il programma di incentivazione di produzioni orginali, web series e “canali” da affidare preferibilmente a professionsiti del settore o a “youtuber” a cui l’azienda ha anche elargito fondi di coproduzione. Da qualche tempo a questa parte sono anche operativi alcuni centri di produzioni (Tokyo, Londra, Los Angeles) nei quali vengono messi a disposizione studi, mezzi di produzione e corsi di formazione a videoautori nel tentaivo do “professionalizzare” la rete amatoriale. Susan Wojcicki, la neoinsediata direttrice della rete e’ stata non a caso a capo della divisione pubblicta’ di Google
Allo stesso tempo la “monetizzazione” dei video caricati sulla rete e’ stata semplificata e aperta a tutti. In teoria basta cliccare l’opzione e gli autori dei video possono partecipare nei proventi delle pubblicita’ vedute da Google. Cosi’ migliaia di persone negli ultimi anni hanno tentato di fare di Youtube un mestiere, trasformando i propri canali in micro operazioni editoriali “commerciali” – ma quello che a molti e’ sembrata l’opportunita’ di diventare produttori di se stessi con totale liberta’ editoriale e autonomia si e’ spesso rivelata un’illusione.
In realta’ le tariffe pubblicitarie su internet sono ancora cosi’ basse che sono necessarie centinaia di migliaia (o meglio, milioni) di visioni prima di poter realizzare i primi esigui guadagni – anche perche’ Youtube si tiene il 45% dei proventi (realizzando lo scorso anno utili per $5,6 miliardi) . Come ha raccontatao il New York Times in questo bel articolo, gli stessi dirigenti di Youtube sconsigliano di affidarsi al canale per una fonte affidabile di sostenatmento, suggerendo si usarlo principalment come strumento promozionale in vista della ”diversificaazione”. In pratica: “fatevi conoscere, diventate famosi e aspettate di venire scoperti e scritturati da un canale tradzionale come una TV. Oppure vendete magliette e souvenirs”. Questo a fronte di una mole di lavoro e professionalita’ che a tutti gli effetti equivale o eccede quelle di una professione “tradizionale”.
Il solito modello del “non ti possiamo pagare, ma vedrai che esposizione” che ogni creativo conosce ormai alla nausea, omettendo il fatto che molti creative sono su Youtube perche’ hanno perso ogni prospettiva in settori tradizionali in catastrofica crisi. Nella realta’ lo smatellamento “democratico” dei monopoli editoriali del Old Media e’ avvenuto al costo di un liberismo selvaggio – una corsa verso il basso in cui a fronte all ampliamento smisurato della forza lavoro i guadagni si concentrano in una minuscola élite. La commercializzazione dei contenuti gratuiti (come quella dei dati personali) da parte dei colossi di Silicon riflette ed estremizza il modello del (non)lavoro subaltern in era globalista.
Alla fine Youtube e’ parte del teorema del post-lavoro in un mercato digital-liberista che favorisce oligarchie piu’ ricche e piu’ élitarie di quelle del capitale industriale del dopoguerra. Un motore di inuguaglianza destinato ad esacerbare lo sfruttamento del lavoro.
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