Fattore Chelsea Clinton
Un tempo la chiamavano ‘The Child’, ora può essere l’arma segreta per la corsa alla Casa Bianca della mamma, Hillary
Molto dicono i particolari più minuti: per capire che l’immensa macchina elettorale dei Clinton marcia a tutto vapore, a due anni e mezzo dalle elezioni generali, bastano gli adesivi sulle automobili di elettori democratici fra New York e Chicago: “Ready for Hillary”. È questo il nome del suo Super Pac, il comitato d’azione politico ufficialmente non affiliato a uno specifico candidato (ma con un nome del genere c’è poco da nascondere) che ha già raccolto 4 milioni di dollari e organizzato eventi di fundraising in Iowa e New Hampshire, i primi due stati che voteranno alle primarie democratiche.
La prossima tappa è in South Carolina. Ogni mossa politica a Washington è interpretata in chiave clintoniana, ogni leggero spostamento in casa democratica è valutato in funzione dei vantaggi o degli svantaggi che porterà alla corsa dell’ex segretario di Stato verso la Casa Bianca. Tutti i movimenti nel suo capillare network sono tenuti sotto strettissima osservazione.
Hillary raccoglie fondi. Hillary organizza il suo team elettorale. Hillary parla a porte chiuse con i banchieri di Wall Street. Hillary incontra il leader dell’Onu, Ban Ki-Moon. Hillary estende la sua sfera d’influenza. Hillary, Hillary, Hillary.
A domanda diretta circa le sue intenzioni, l’ex segretario di Stato di Barack Obama, oggi tornata a fare l’avvocato, sorride in modo affabile, si schermisce con ironia, prende cortesemente tempo parlando di valutazioni ancora da fare e decisioni ancora da prendere. Stanchezza e voglia di ritirarsi nella parte più nobile e meno stressante della politica, quella fatta di fondazioni che sostengono cause ineccepibili, diplomazia informale, interventi pubblici da 200 mila dollari a gettone, sono le divagazioni ricorrenti della ex first lady che già una volta è scesa in campo per afferrare la poltrona che fu di suo marito. Quella volta gli astri politici le si sono rivoltati contro, producendo il più inaspettato e fenomenale catalizzatore di consensi della storia politica recente, Obama. È stato lui a provare che la macchina dei Clinton, un network ricco e tentacolare intessuto con pazienza, è forte ma non imbattibile. E che i Clinton sono immensamente popolari presso il popolo democratico, ma non del tutto invincibili.
Uno dei difetti di fabbrica della macchina clintoniana è, per esempio, una certa idea tribalista del fare politica. La macchina è roba per insider, una cerchia di adepti che si riconoscono e si legittimano a vicenda, mostrando quell’autoreferenzialità da vecchio establishment che non è propriamente la qualità più allettante per tutti gli elettori democratici. Certamente non per quelli che eleggono a New York un populista antisistema come il neosindaco Bill de Blasio; ironicamente, de Blasio stesso è un prodotto politico transitato nella famiglia allargata dei Clinton (ha curato la campagna di Hillary al Senato), ma per arrivare alla poltrona di sindaco ha dovuto costruire una piattaforma politica lontanissima dai tratti clintoniani. Ha opposto intransigenza e idee radicali ai compromessi, agli accordi, agli equilibrismi e alle lottizzazioni che sono il pane quotidiano in casa Clinton.
Per questo Hillary ha bisogno di muovere le acque. Deve cambiare qualcosa per non incorrere negli errori del passato. Serve un ponte fra il tradizionale modo di operare e un elettorato in evoluzione.Serve il “fattore C”: nel senso di Chelsea, la figlia che negli ultimi anni ha scalato posizioni e fatto saltare parecchi schemi nell’apparato politico casalingo. Il New York Times magazine ha efficacemente raccontato i sommovimenti del clan Clinton sfruttando uno schema astronomico: nell’universo clintoniano ci sono pianeti e satelliti, stelle e meteore, ci sono quelli destinati a girare nell’orbita altrui e i centri di gravità che irresistibilmente attraggono.
A 33 anni, nel clan dei Clinton Chelsea è un pianeta a sé. Ha lasciato ormai da tempo la parte della figlia sorridente che completa il quadretto familiare per prendersi un ruolo da protagonista sulla scena. Un tempo i consiglieri dei genitori la chiamavano “the child”, la bambina, e non era un soprannome del tutto affettuoso. Oggi Chelsea decide della vita o della morte (politica, s’intende) di quegli stessi consiglieri. Dicono che ci sia stata proprio lei all’origine della marginalizzazione di Doug Band, consulente clintoniano che Bill trattava praticamente come un figlio. Basta sapere quanti soldi questo giovane talento ha racimolato per la Clinton global initiative (la Cgi è l’ente che promuove la leadership globale, ottimo cappello istituzionale per conciliare diplomazia e lobbying), per capire l’importanza di questo consigliere: 69 miliardi di dollari. L’ex presidente dice che era stato proprio Band ad avere l’idea di fondare la Cgi. Band ora si è fatto un po’ da parte, così dice, ma altri dicono che sia stata Chelsea a farlo fuori. Le malelingue aggiungono che il consigliere aveva messo in giro la voce di una crisi matrimoniale fra la giovane e il banchiere d’affari Marc Mezvinsky: la voce è stata smentita con forza dagli interessati, ma non poteva non produrre una reazione nell’universo Clinton.
Chelsea taglia teste, prende decisioni, detta il clima, rimbrotta venerati strateghi politici, indica con crudele cortesia l’uscio a chi si mette di traverso. Spesso sono gli stessi che un tempo la chiamavano “the child”. Anche la Clinton foundation, un’altra piattaforma politicofinanziaria che da tempo galleggia nell’universo Clinton, è stata completamente rimodellata da Chelsea. In questo caso, l’erede di Bill ha scelto per la direzione il suo amico Eric Braverman. Ma lo stesso Braverman presto è stato richiamato dalla sua protettrice per via di una certa inclinazione a promuovere più il suo nome che quello della fondazione. Lei lo ha rimesso in riga all’istante.
Chelsea, del resto, ormai dispone di una sua galassia personale. Ha un capo di gabinetto, un vero e proprio ufficio di comunicazione, consiglieri politici e strateghi d’ogni sorta. Gira perfino voce che tutto questo movimento sia il preludio a una personalissima corsa per un posto da deputato rimasto vacante, ma i portavoce smentiscono con un sorriso. Insomma: Chelsea si muove su un solco già ampiamente tracciato, certo, ma è anche la figura che può portare le novità di cui Hillary ha bisogno per fare funzionare a dovere la macchina politica.
La notizia che il prossimo 11 marzo sarà lei a fare uno degli interventi principali al festival Sxsw non è di poco conto. La rassegna musicale, cinematografica e tecnologica che dal 1987, ogni primavera, attira centinaia di migliaia di persone ad Austin, la capitale del Texas, è diventata infatti un appuntamento fondamentale per un elettorato giovane che la macchina dei Clinton, di certo potente ma anche poco duttile, fatica tremendamente a coinvolgere. È anche su quel terreno che Obama alle primarie democratiche del marzo 2008 aveva surclassato Hillary. Così, sei anni più tardi, Chelsea potrebbe essere l’apripista di una nuova dimensione nell’universo clintoniano. Una nuova dimensione: proprio questo, del resto, serve a Hillary per uscire dallo schema del già visto e che ancora fa storcere il naso agli strateghi di Obama. Le voci dei consiglieri del presidente, raccolte dal sito di analisi politologica BuzzFeed, raccontano di un certo scetticismo nei confronti dei primi segnali mandati da Hillary, tutti orientati ad affermare l’inevitabilità della sua candidatura. “Se non io, chi?” è il messaggio che sembra comunicare fin qui Hillary.
Sicuro, come segnale. Forse anche efficace. Ma basterebbe? In molti ne dubitano. L’ultima volta che ha mandato quel messaggio agli elettori, le cose non sono andate benissimo per lei. Meglio allora puntare sul “fattore C” per spuntare le armi del suo principale avversario, quello ben descritto da Time: “Il peggiore competitor di Hillary non è un altro candidato, è lei stessa”.
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