Why Kerry Failed in the Middle East

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Perché Kerry ha

fallito in Medioriente

di Stefano Magni

01 maggio 2014ESTERI

Il 29 aprile avrebbe dovuto essere l’ultimo giorno utile per chiudere un accordo fra Autorità Palestinese e Israele. Sono passate 24 ore da quella scadenza e l’unico accordo firmato in Medio Oriente è quello fra i due partiti palestinesi, Al Fatah e Hamas, volto a formare un fronte unitario contro Israele. Non solo la situazione non è migliorata, ma è addirittura peggiorata. Mentre Barack Obama è ancora in Asia orientale, ad arbitrare il fallito negoziato è il suo segretario di Stato, nonché ex candidato alle presidenziali del 2004: John Kerry. Constatato il fallimento completo dei colloqui da lui stesso avviati, ad Amman, alla fine del 2013, il ministro democratico non trova niente di meglio da dire che una frase che sprizza pessimismo offensivo: “Ribadiremo la soluzione dei due Stati come l’unica vera alternativa. Perché uno Stato unitario (israeliano, ndr) finisce per essere uno Stato in cui vige l’apartheid, con cittadini di seconda classe, oppure uno Stato che nega a Israele la capacità di essere uno Stato ebraico”. Lo ha detto proprio quando si celebrava la memoria delle vittime della Shoah, dimostrando una sensibilità pari a quella di un elefante nella cristalleria. La reazione non si è fatta attendere. Protesta da parte del governo Netanyahu, protesta del Partito Repubblicano e sollevazione dell’opinione pubblica ebraica e filo-israeliana in America, che è quasi tutta formata da elettori del Partito Democratico. Un disastro su tutta la linea.

Ieri John Kerry, di fronte alla raffica di critiche, si è scusato pubblicamente affermando che “se potessi riavvolgere il nastro, userei una parola diversa”. Probabilmente gli elettori democratici (negli Stati Uniti) si accontenteranno di queste scuse e continueranno a votarlo. Ma, a ben guardare, scuse non sono, perché non è certo la singola parola “apartheid”, ma la logica del suo ragionamento. Riassumendo in poche parole: per Kerry, il problema è solo Israele. Questa tendenza è confermata anche da una precedente gaffe pronunciata da Kerry, quando i negoziati erano ancora aperti, nel momento in cui aveva detto che, in caso di un loro fallimento, non avrebbe potuto contrastare un boicottaggio internazionale contro Israele.

Era una velata minaccia. Un po’ come quando un boss ti “suggerisce” di fare come dice lui, altrimenti “non assicura l’incolumità” della vittima. E così era stata intesa in Israele. Da questo modo di ragionare, si può ben dedurre tutta la visione che i progressisti americani hanno della crisi in Medio Oriente. Secondo questa analisi la coesistenza sotto uno Stato democratico israeliano è impossibile. Stato ebraico e Stato arabo-palestinese devono essere divisi. Non perché vi sia una ostilità genetica fra i due popoli, ma perché gli israeliani, a un certo punto della loro storia (la Guerra dei Sei Giorni del 1967) hanno occupato i territori del Golan, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. L’origine del male, per i democratici, è solo quella. Questa percezione è anche la stessa che ha caratterizzato alcuni dei colloqui fra Obama e Netanyahu. Come nel 2011, quando il presidente Obama disse (poche ore prima che giungesse a Washington il suo ospite) che Israele, per risolvere il problema, avrebbe dovuto ritirarsi entro i confini pre-1967. È chiaro che, se il peccato originale è l’occupazione dei territori nel 1967, se il problema irrisolto è la vittoria israeliana nella Guerra dei Sei Giorni, la soluzione è il ritiro israeliano. Il mancato ritiro israeliano, secondo Kerry, porterebbe alla “segregazione” (apartheid) degli arabi che vivono nei territori, o la vendetta araba contro gli israeliani.

Gli israeliani, tuttavia, vedono la loro storia da una prospettiva un po’ diversa. E non hanno tutti i torti. Prima di tutto ricordano perché scoppiò la Guerra dei Sei Giorni. Siria, Giordania ed Egitto (e altri alleati esterni, fra cui l’Iraq) tentarono di distruggere Israele, di invaderlo e di spartirselo. Israele ebbe la capacità di prevenirli e sconfiggerli, prima che fosse troppo tardi. La Guerra dei Sei Giorni non fu il primo né l’ultimo conflitto di sopravvivenza dello Stato ebraico, che già aveva rischiato l’estinzione nel 1947-48 e la rischiò di nuovo quando venne invaso nel 1973. Solo l’acquisizione di armi atomiche da parte israeliana (anche se mai dichiarate) impedisce ai regimi arabi circostanti di compiere un altro tentativo, ma non di fornire armi e fondi alla guerriglia locale, coordinata da movimenti armati palestinesi. L’ideologia nazionalista araba è stata in gran parte soppiantata da quella islamica jihadista. Ma l’obiettivo di distruggere Israele è ancora esplicito, scritto nero su bianco nello stato di entrambi i movimenti palestinesi. E cambia nulla che il leader di Al Fatah, nonché presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) dichiari che la Shoah sia “il peggior crimine contro l’umanità”: il programma del suo partito non è cambiato. I movimenti palestinesi hanno semplicemente accettato la fase intermedia della spartizione territoriale: Cisgiordania e Gaza sotto un’autorità autonoma e il resto spetta a Israele. Ma l’obiettivo finale è sempre una Palestina unita, araba e islamica, dal Giordano al Mediterraneo, da Eilat al confine libanese, da Tel Aviv al confine giordano.

Il problema è dunque l’occupazione israeliana? O non, piuttosto, il programma dei movimenti armati palestinesi? È per fronteggiare la minaccia di questi ultimi, autori di migliaia di attentati contro civili inermi, che gli israeliani hanno adottato misure di sicurezza straordinarie, fra cui la costruzione della barriera difensiva (o “muro”). Ma di sicurezza si tratta, non di segregazione. Non c’è alcun apartheid nei confronti degli arabi che vivono in Israele. Non c’è alcuna discriminazione nei confronti degli arabi palestinesi (quelli che vivono nei territori), i quali possono avvalersi di servizi pagati dal contribuente israeliano. C’è semmai un difficile tentativo di spartirsi competenze fra i territori controllati dall’Autorità Palestinese, quelli controllati dal governo di Gerusalemme e quelli ad amministrazione mista. Ma non c’è alcuna segregazione etnica o religiosa. Anche in caso di permanenza di uno status quo senza confini concordati, non vi sarebbe discriminazione razziale: sono troppo ininfluenti i partiti israeliani che la vorrebbero e troppo forti le opposizioni. Se, al contrario, si dovesse arrivare all’unificazione di tutto il Paese sotto un’autorità palestinese, gli ebrei non vi troverebbero più posto. Prova ne è che gli insediamenti ebraici in terra palestinese (quelli che Kerry considera il peggior ostacolo alla pace) continuano ad essere sotto attacco, isole ebraiche circondate da un mare di ostilità. È in uno di questi insediamenti, a Hebron, che una famiglia intera israeliana è stata attaccata a raffiche di mitra, lo scorso 14 aprile (il padre, un poliziotto, è morto, moglie e figli feriti gravemente), l’episodio che ha aperto l’ultima crisi prima del fallimento dei negoziati. Al contrario, gli arabi che vivono in terra israeliana, in mezzo agli ebrei, non sono vittime di attentati.

Dalla settimana scorsa, Hamas e Fatah sono ufficialmente alleati. Entrambi, come abbiamo visto, hanno l’obiettivo finale di liquidare Israele. Il che significa, fuor di metafora: cacciare gli ebrei dal Medio Oriente. Invece di mostrare una decisa solidarietà nei confronti di un alleato minacciato, Kerry ha pensato bene di accusarlo di razzismo. E gli israeliani dovrebbero accettarlo ancora come arbitro dei negoziati?

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