Un altro pilastro dell’affirmative action e della stagione dei diritti civili crolla. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che gli elettori del Michigan hanno tutto il diritto di cambiare la loro Costituzione e bandire l’appartenenza etnica e razziale come criterio di selezione nelle università e college. “La nostra Costituzione è cieca quanto al colore della pelle”, hanno scritto due dei giudici conservatori, Antonin Scalia e Clarence Thomas, che hanno sostenuto la decisione della Corte. “La nostra storia è un tentativo continuo di escludere le minoranze dal processo politico”, ha invece affermato Sonia Sotomayor, la giudice liberal che insieme a un’altra progressista, Ruth Bader Ginsburg, si è opposta alla sentenza. Di sicuro c’è che la decisione avrà conseguenze enormi sui modi in cui le università Usa formano le classi dirigenti del futuro. La diversity, il diritto e il dovere delle istituzioni educative di vedersi rappresentate da studenti di tutte le appartenenze etniche e razziali, non è più un valore nell’America 2014.
Alla sentenza di queste ore, la “Schuette v. Coalition to Defend Affirmative Action”, si è arrivati dopo una lunga storia e un progressivo allontanarsi dalla politica di pari opportunità che segnarono la stagione dei diritti civili e la legislazione del presidente Lyndon Johnson. Con una storica sentenza del 1978, la Corte stabiliva la necessità di riservare un certo numero di posti nelle università ai membri delle minoranze. Ancora nel 2003 i giudici ribadivano la legalità del criterio etnico e razziale come strumento di selezione. La “rivoluzione conservatrice” che negli ultimi trent’anni ha segnato la cultura e la società americane ha però, alla fine, travolto anche l’affirmative action. L’azione dirompente dei gruppi conservatori, ultimi quelli del Tea Party, ha contribuito a cambiare il modo stesso in cui le “azioni positive” sono viste dalla maggioranza dell’opinione pubblica: da strumento per assicurare pari opportunità a norma odiosa che aiuta ingiustamente i membri di una minoranza – senza altro merito se non essere, per l’appunto, membri di una minoranza.
La giurisdizione Usa ha finito per prendere atto di questa evoluzione. Una sentenza del 2007 limitava per la prima volta l’uso della race come criterio di ammissione universitaria. Quella di queste ore completa il processo e dà agli Stati la possibilità di escluderla del tutto dai processi di selezione. Era stata d’altra parte la maggioranza degli elettori del Michigan, nel 2006, a votare in maggioranza per bandire l’affermative action, a riprova di come le pari opportunità decise per legge non siano più in sintonia con mentalità e orientamenti della gran parte degli americani. Questo nuovo corso è stato sintetizzato dal presidente conservatore della Corte, John Roberts, secondo cui “l’unico modo per bandire la discriminazione sulla base della razza è bandire la pratica di discriminare sulla base della razza”, quindi trascurare completamente le “quote” nelle scuole e sui posti di lavoro. Un’opinione duramente avversata dal giudice Sotomayor, per cui “la Costituzione di certo non protegge le minoranze dalla sconfitta politica, ma nemmeno dà alla maggioranza il diritto di elevare barriere contro le minoranze”.
Per esprimere la sua contrarietà la Sotomayor, figlia di immigrati portoricani, si è alzata e ha letto in aula la sua “opinione”. Un atto inconsueto, che ha mostrato le implicazioni emotive e personali della decisione. La Sotomayor ha ricordato spesso, a parole e nella sua autobiografia, di essere entrata a Princeton e poi alla Yale Law School proprio grazie alle norme sull’affermative action. Resta da vedere, a questo punto, cosa succederà nel mondo universitario e scolastico americano. Tutti i dati a disposizione mostrano che in quegli Stati dove le “azioni positive” non sono più rispettate – la Florida, la California, ora il Michigan – si è verificato un deciso calo nelle registrazioni di studenti ispanici e neri nelle maggiori università. E’ opinione diffusa che quest’ultima sentenza renda dunque necessaria la ricerca di alternative all’affirmative action, per non escludere del tutto i membri dei gruppi svantaggiati da un’istruzione di alto livello. Una possibile soluzione, annunciata da Muriel Howard, presidente della American Association of State Colleges and Universities, è quella di ricorrere non più all’etnia ma piuttosto al reddito. Canali di entrata privilegiati nelle università sarebbero quindi riservati non più ai membri delle minoranze, ma a quegli studenti a basso reddito e spesso di “prima generazione” negli Stati Uniti.
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