"The Syrian Rebellion Is the Work of the US"*: A Simpsons Episode Proves It

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“Siria, la ribellione è opera degli Usa”. Lo prova una puntata dei Simpson

Un canale egiziano diffonde uno spezzone di una puntata del 2001 in cui appare una bandiera che i ribelli anti-Assad useranno solo 10 anni più tardi. Piccola antologia dei grandi casi pubblici di presunta cospirazione americana

di Laura Cappon | 9 maggio 2014Commenti (14)

Più informazioni su: Consiglio Nazionale Siriano, Iraq, Simpson, Siria, Usa.

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“Ciò che sta avvenendo in Siria è premeditato dalle potenze occidentali”. Parola di Rania Badawy, presentatrice egiziana che recentemente, in una puntata del suo talk show sul canale privato egiziano “Tahrir”, ha affermato che dietro la rivolta contro il presidente Assad, e anche sulle altre rivolte arabe, ci sia la longa manus degli Stati Uniti. A prova delle sue teorie non c’è nessun documento segreto dei servizi americani ma un episodio dei Simpson del 2001 che la Badawy ha mostrato nel suo programma. La clip di 80 secondi trasmessa dalla anchorwoman egiziana vede quattro personaggi, tra cui Bart e Milhouse, bombardare un gruppo di mediorientali alla guida di aerei militari.

Il particolare che dovrebbe avvalorare la tesi è una jeep decorata con una versione della bandiera siriana usata dai manifestanti e dai ribelli anti Assad. “Quella bandiera non esisteva prima del 2011, come sia finita nell’episodio del cartone non è dato sapere”, dice la Badawy arrivando alla conclusione che se gli americani ne erano a conoscenza 10 anni prima questa è la conferma che la rivolta siriana è stata architettata dagli USA.

A sollevare il caso e, ovviamente a smentire con un accurato fact-checking ha provveduto Robert Mackey. Su The Lede del New York Times Mackey afferma che quella bandiera non è di certo una novità. I ribelli hanno semplicemente adottato il primo tricolore siriano utilizzato dal 1932 e sostituito dopo il colpo di stato del 1963. Inoltre, la scena sarebbe ambientata in Iraq e non in Siria. Tra il gruppo di mediorientali che appaiono nell’episodio c’è un casco blu dell’Onu, un esplicito riferimento al bombardamento degli Usa in Iraq nel 1998 (nell’operazione “Desert Fox”) deciso da Washington dopo una disputa scaturita da un’ispezione delle Nazioni Unite sulle armi irachene.

Mackey, in pieno stile anglosassone, ridicolizza un episodio che può suscitare ilarità tra l’audience occidentale ma non tra gli egiziani – e in generale tra gli abitanti dei paesi mediorientali – dove la sindrome della teoria del complotto aveva giù creato diversi precedenti altrettanto surreali. Tra i numerosi casi degli ultimi anni, i più esilaranti riguardano un piccione e una cicogna. Il primo, nel gennaio nel 2013, venne “arrestato” al Cairo per avere un supporto microfilm legato alla zampa e un messaggio “Egitto e Islam”. Nel settembre 2013 a finire “in carcere” era stata una cicogna proveniente dalla Francia e fermata a Qena (cittadina a 450 Km dal Cairo) perché tra le sue piume nascondeva un congegno elettronico scambiato dalle autorità egiziane per un dispositivo di spionaggio.

“In Medio Oriente la teoria del complotto è ampiamente diffusa perché è stata usata dai vari regimi per tenere a bada la popolazione”, spiega Enrico De Angelis, ricercatore di comunicazione politica internazionale al CEDEJ del Cairo. Se i giornalisti credano o no a questo tipo elucubrazioni non è chiaro ma ciò che colpisce è la credenza popolare sulla continua e cruciale interferenza delle potenze occidentali negli affari interni dei loro paesi. “Siamo di fronte all’esasperazione del ruolo delle nazioni europee e degli Stati Uniti”, continua De Angelis. “Non si può negare il loro interesse e il loro operato diretto nella storia del Medio Oriente ma scaricare addosso all’occidente il destino dell’intera regione significa esulare gli stati e i suoi abitanti dalle proprie responsabilità”.

Le rivoluzioni sembravano aver indebolito la teoria del complotto dando consapevolezza alle popolazioni mediorientali di poter decidere le sorti della loro nazione. Ma i periodi di transizione travagliati che hanno accomunato le sorti di tutti i paesi toccati dalla cosiddetta “primavera araba” hanno riportato con ancora più enfasi le tesi cospirazioniste nei mass media. Ancora una volta, l’Egitto fa scuola. La campagna mediatica di consenso per l’ex generale delle forze armate Abdel Fattah El Sisi (il grande favorito alle prossime presidenziali previste per fine mese) ha utilizzato la teoria del complotto per indebolire e reprimere con violenza le forme di dissenso. In particolare contro i Fratelli Musulmani, dichiarati dal governo organizzazione terroristica senza nessuna prova concreta, grazie anche a una campagna denigratoria di giornali e tv vicine all’esercito.

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