Renzi Visits Obama: What They’ll Say

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Renzi da Obama: cosa si diranno

L’incontro ci sarà il 17 aprile. Noi lo abbiamo immaginato, in anticipo, in stile renziano

Nel mio ruolo di diavolo, posso vedere il futuro, e raccontarlo ai lettori di Panorama.it. In questo caso, l’annunciato incontro Renzi-Obama.

Washington, 17 aprile 2015.

Nonostante la giornata piovosa, il Presidente Obama attende sul prato della Casa Bianca l’ospite che arriva dall’altra parte dell’Oceano. In lieve ritardo, compare un tipo non molto alto di statura, molto agitato, che parla freneticamente al cellulare. Del contenuto della conversazione, nonostante parli a voce alta, gesticolando, non si capisce nulla, tranne una serie di “h” aspirate.


La banda, all’apparire dell’ospite, intona l’inno nazionale. Obama con un gesto discreto chiama a sé il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, l’efficiente Susan Rice, e le chiede chi sia l’esagitato. La Rice gli sussurra all’orecchio “Renzi, Italy”. Allo sguardo perplesso di Obama la preparatissima Rice aggiunge “pizza, mafia, Armani”. A quel punto, il volto di Obama, che come tutti gli americani ha un’idea dell’Europa piuttosto vaga, si illumina. Si mette a canticchiare la colonna sonora del Padrino, e si fa passare una cartellina che riassume i temi del colloquio.

In sintesi, secondo la Casa Bianca, i due leader avrebbero dovuto passare in rassegna i temi di comune interesse (quali, si chiese Obama?), mentre secondo Palazzo Chigi si sarebbe dovuto discutere della Libia, del terrorismo, dell’Ucraina, ma anche dei problemi globali della nostra era, come l’energia e i cambiamenti climatici.

L’ospite italiano finalmente smette di parlare al cellulare, e si fa avanti tendendo la mano al Presidente, con uno squillante “Mr.Obama, I presume”, che non c’entra nulla (i due si erano già incontrati in Italia), ma serve a dare prova ai giornalisti italiani del suo inglese fluente.

Obama, non cogliendo il sottinteso vagamente coloniale della frase (la stessa con cui si salutarono i grandi esploratori dell’Africa, Livingstone e Stanley, sulle rive del Lago Tanganika dopo anni di ricerche) abbraccia ad uso delle telecamere l’ospite italiano, e i due raggiungono il palchetto allestito per la conferenza stampa. Qui il presidente americano legge un breve discorso di circostanza, in cui si cita Cristoforo Colombo e l’impegno dell’Italia nelle missioni internazionali.

Poi è il turno dell’ospite italiano, che affronta uno ad uno i temi del vertice, ovviamente in inglese. Sui cambiamenti climatici spiega che “there are no more the half seasons” tanto è vero che oggi – aggiunge – “rains, government thief”. Il Presidente americano, che alla prima affermazione ha guardato l’interprete con aria interrogativa, alla seconda si rabbuia. L’immediato, discreto intervento dell’ambasciatore d’Italia, Claudio Bisognero, scongiura la crisi internazionale: l’esperto diplomatico spiega prontamente agli interlocutori americani che quella usata da Renzi era una raffinata metafora, e non una critica al Governo Federale. Quanto alla Libia, il Premier Italiano assicura che gli italiani sono pronti a sbarcare sulla “quarta sponda”, e che vinceranno malgrado “owls and… (momento di incertezza) rosicons”.

Superfluo aggiungere che poi Renzi, passato finalmente all’italiano, si dilunga per una mezz’ora buona sui rapporti con Fassina e con la Camusso, sul ruolo di NCD, sulla riforma della legge elettorale, sui rapporti con i magistrati, sulla riforma della RAI e su altri affascinanti problemi della politica italiana (gli unici davvero interessanti per i giornalisti al seguito).

Obama, stremato, riesce finalmente a far varcare al suo ospite le porte dello Studio Ovale, che dopo le foto e le riprese di rito si chiudono alle loro spalle, lasciando spazio al colloquio privato.

I due si guardano e si capiscono al volo, senza bisogno di interprete. Entrambi si tolgono la giacca e allentano la cravatta. Obama sfila le scarpe e si distende su uno dei comodi divani. Renzi si siede alla scrivania del Presidente. Fissano la sveglia sui rispettivi cellulari dopo un’ora.

In quell’ora, il leader del più potente stato del mondo si concede finalmente quel sonnellino che Michelle e il Congresso Repubblicano gli vietano da tempo. Renzi fa ventidue telefonate, cinque delle quali a Luca Lotti, tre a Maria Elena Boschi, una ciascuno ad Alfano, a Del Rio (che è in disgrazia) e alla Madia, le altre ai direttori dei principali giornali e ai compaesani di Rignano sull’Arno (non parendogli vero di farseli passare dal centralino della Casa Bianca).

E poi, al suono implacabile della sveglia, che distoglie Obama dai suoi sogni e Renzi dalle sue telefonate, si conclude l’approfondito scambio di vedute. È un peccato che sia andata così: un vero colloquio fra due degli uomini più presuntuosi, autoreferenziali e innamorati della propria immagine mai prodotti dalla democrazia occidentale sarebbe stato uno spettacolo da non perdere.

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