Donald Trump Soars in Polls: Is This a Repeat of 1992?

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Donald Trump svetta al 24% nel sondaggio Washington Post-ABCNews, e quasi doppia Scott Walker, secondo al 13%. Con questa vittoria, il “tifone Donald” ha addirittura anche conquistato la prima posizione nella classifica che conta di più, quella della media dei recenti sondaggi che determinerà la griglia dei 10 che parteciperanno al primo dibattito su FOX News in agosto: per Real Clear Politics Trump è al 18%, seguito da Jeb Bush, con il 13,8%, e da Scott Walker, con il 10,8%. Le rilevazioni a un anno mezzo dal voto brillano per la loro volatilità: basti ricordare che nel 2011 hanno avuto momenti di gloria anche Michele Bachman e Herman Cain, oggi spariti dal radar politico. Ma questo 2015 è diverso, perché diversissimo è il candidato newyorkese, palazzinaro e uomo tv miliardario, che da decenni è sulla cresta dell’onda della celebrità e non sarà destinato all’oblio comunque vada la sua avventura. Piuttosto, bisogna capire lo sbocco politico che potrà produrre la sua campagna fuori dalle righe. Monopolizza l’attenzione dei media come nessuno, perche’ sarebbe un personaggio da titoli anche se dicesse cose normali. Invece, scientemente, dice cose anormali e si garantisce le copertine. Ha esordito chiamando stupratori e spacciatori i messicani nel discorso d’apertura (anche se non ha detto proprio così, il messaggio che è passato nell’opinione pubblica è questo). E pochi giorni fa ha parlato male di Garibaldi, attaccando la bandiera militare del GOP, il senatore John McCain: “Non è un eroe di guerra per il fatto di essere stato prigioniero in Vietnam”, ha detto durante un discorso in cui ha promesso che aiuterà i veterani che sono trascurati dai politici, anche da McCain ”che non fa niente per loro”. “Io preferisco i soldati che non si fanno catturare”, ha proseguito.

Con questa sparata Trump ha passato il segno, e ha scatenato le reazioni critiche di tutti gli altri candidati, con l’eccezione di Ted Cruz che sta facendo un calcolo spregiudicato: è convinto, al pari del resto del lotto repubblicano, che la candidatura di Trump imploderà prima o poi, e a quel punto vuole essere lui l’ “erede” riciclatore di quel pacchetto di preferenze estremiste.

In realtà, lo scenario attuale è meglio descritto da come Rick Perry, l’ex governatore del Texas, ha trattato Trump in un suo intervento di ieri: “La candidatura di Donald è un cancro sulla politica dei conservatori, va diagnosticato chiaramente, isolato ed eliminato”. Quasi tutti gli altri, da Pataki a Jindal a Rubio a Graham, si sono schierati a fianco di McCain, che a sua volta ha solo da guadagnare per l’oltraggio subito da Trump: McCain è in corsa per la rielezione al Senato nel 2016, e la solidarietà generale espressa nel partito dell’Elefante per la sua storia e la sua figura è la migliore campagna pubblicitaria.

Oggi è come se ci fossero, nel GOP, i “preliminari” che danno l’iscrizione alle primarie vere: l’obiettivo dell’establishment è di togliere di mezzo Donald l’eretico prima che deturpi irreparabilmente il brand del partito repubblicano. Più a lungo dura l’avventura del miliardario spaccone (“sono veramente ricco”, ama ripetere) in cima alle classifiche delle preferenze nel GOP, più frecce all’arco avrà la Hillary nel definire il suo avversario repubblicano che verra’ come “uno del partito di Trump”. Trump, infatti, non sara’ mai eletto presidente, e neppure arriverà alla nomination, a meno che i repubblicani siano in vena di suicidio: pur con i sondaggi nel GOP che oggi gli sorridono gratificandolo del primo posto nelle preferenze, sull’altro polo Trump sa che è anche primo tra quelli “scartati, quelli per cui uno non voterebbe mai”: tra tutti gli americani, oltre il 60% lo boccia in maniera secca.

Ma oltre al rischio del brand macchiato, un’altra tegola, questa esiziale, potrebbe cadere sul capo del GOP: la decisione di Trump di andare da solo, come indipendente, quando capisse che non ha serie chance di nomination repubblicana. Sarebbe un pretenzioso Perot Due, e la Storia potrebbe divertirsi con un ricorso vichiano: nel 1992, Ross Perot scese in campo togliendo voti a Bush Padre, che perse la rielezione e spalancò la porta a Bill Clinton; nel 2016 Donald Trump, se facesse il terzo incomodo, toglierebbe voti al nominato repubblicano, che potrebbe essere guarda caso proprio il figlio di Bush, Jeb, che perderebbe la corsa lasciando la Casa Bianca a Hillary Clinton, la moglie di Bill.

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