Paris Attacks: Fanaticism, Weapons, Economic Interests. Why Are They Attacking Us?

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Dopo la strage di Parigi un dato è certo. La trincea è ovunque. Si tratta di capire come siamo arrivati a questo punto. C’è la sensazione in Italia – forse qualcosa di più di una sensazione – che un attentato orribile, devastante, avvenga anche da noi. Di nuovo: come siamo arrivati a questo punto? Lo sguardo va al quadro geopolitico: che cosa sta accadendo in quell’area, tra la Siria e l’Iraq, in cui è nato il cosiddetto Stato islamico? Quali interessi ci sono? Intendo: quali interessi anche delle potenze occidentali. Siamo sicuri che la strategia politico-militare dell’Occidente sia esente da errori?

Siamo sotto attacco: l’offensiva si è sviluppata con forza crescente: assalto a Charlie Hebdo, in Tunisia, all’aereo russo. Adesso, Parigi. Siamo in guerra: è l’11 settembre dell’Europa. Giusto. Ma perché? Perché ci attaccano? Se non si guardano (anche) le responsabilità dell’Occidente ci raccontiamo una bella favola: noi siamo i buoni e loro incarnano il male. Non è così. La questione storico-politica è più complessa.

Per anni l’Europa e gli Stati Uniti – questo è il punto – hanno appoggiato tiranni corrotti: Gheddafi in Libia, Saddam Hussein in Iraq, oggi il Presidente della Siria Assad; interessi economici hanno determinato scelte e posizionamenti. Quando il quadro politico è mutato l’idea è stata di riportare l’ordine (il nostro ordine) con i bombardamenti aerei e i droni. E’ una strana idea della democrazia pensare di risolvere una guerra civile in atto bombardando e sostituendo un governo “amico” con un altro. Anni fa, riflettendo su altre guerre, Jacques Derrida ha scritto: esistono Stati canaglia? Se la ragione del più forte è sempre la migliore… allora, sì. Insomma: il caos, nelle terre di confine tra Siria e Iraq è frutto anche dei nostri errori.

Certo, poi c’è la questione del fanatismo islamico, ma intanto vanno capite le ragioni economiche – il dato strutturale, per dirla in termini marxisti – alla base del conflitto. La guerra è mossa da interessi economici velati da motivi religiosi. La religione è usata, strumentalizzata. Chi finanzia l’Isis? E’ una domanda interessante: ci permette di capire le contraddizioni, il caos, in cui siamo immersi. Bene. Tra i finanziatori – l’hanno evidenziato in molti – c’erano, fino all’altro ieri, la Turchia e l’Arabia Saudita, paesi amici degli Stati Uniti. Finanziavano l’Isis in funzione anti-sciita. Vero. Ma le armi sono state usate dall’Isis anche contro Parigi. Da qui la situazione paradossale, di una grande potenza – l’America – che esprime solidarietà alle vittime francesi uccise con le armi degli amici turchi e sauditi. Si può essere solidali (contemporaneamente) con gli Stati che finanziano il terrore e con chi lo subisce? Da questa ambiguità, per fortuna, Obama ha deciso di uscire e il recente accordo di Vienna (due giorni fa), confermato ieri dal G20, prevede una soluzione della questione siriana: Assad dovrà lasciare il governo entro fine anno, si formerà un governo di transizione entro 6 mesi e poi si andrà a nuove elezioni.

E’ un primo elemento di chiarezza. Creare un minimo di agibilità democratica in Siria è fondamentale. Altra questione è la risposta allo Stato islamico e ai suoi seguaci, strumentalizzati, per fini di potere, dal califfo al Baghdadi. E’ l’aspetto più complesso, e non può essere risolto opponendo al fanatismo islamico un fanatismo Occidentale. Per dirla in breve: la questione non si risolve con le sole armi o alla Belpietro, con quel titolo assurdo: “Bastardi islamici”. Non si ottiene nulla: si rischia d’irritare i moderati e trasformarli in nemici. La strada – per quanto riguarda i musulmani in Europa – è l’integrazione, il multiculturalismo: l’Isis è nemico dei musulmani moderati: li vorrebbe fanatici, pronti alla morte: l’Isis è integralismo, teocrazia, indistinzione tra politica e religione: medioevo. L’autonomia della politica (Machiavelli) è un traguardo lontano: invisibile.

Se non distinguiamo islam buono, da islam fanatico, facciamo il gioco di al Baghdadi. Dobbiamo opporci a una guerra di religione contro il mondo islamico; lo scontro è, al di là dei richiami a Oriana Fallaci (oggi di nuovo di moda tra i guerrafondai) con la minoranza d’integralisti che ha creato lo Stato islamico. Il nemico va circoscritto: non è “il” musulmano.

E tuttavia, è sempre più chiaro che individuare i terroristi e colpirli con le armi tradizionali non è facile. Sfuggono. I terroristi non li puoi affrontare come un esercito in battaglia: colpiscono e scompaiono. E’ una guerra difficile. Occorre un grande lavoro diplomatico, oltre che militare: che veda unite le forze di opposizione al terrore: Stati Uniti e Russia, anzitutto, che finalmente hanno ricominciato a dialogare (la forza dei terroristi, spesso, è derivata dai contrasti e dalle debolezze delle due superpotenze che hanno pensato – anche questo è accaduto – di utilizzare il terrorismo in funzione politica l’uno contro l’altro). Per mesi Obama e Putin non si sono parlati. Questo silenzio ha favorito o danneggiato il terrorismo islamico?

L’Europa non deve perdere la testa: l’Isis ci ha dichiarato guerra; sulle cause, lo dicevamo, abbiamo le nostre responsabilità; vendiamo armi, tra l’altro, ai nostri avversari, diamo al nemico gli strumenti per ucciderci; dobbiamo ammettere di aver gestito male i rapporti politici ed economici con quel mondo; adesso dobbiamo rispondere alla violenza facendo meno danni possibili: evitando che tutto il mondo musulmano si coalizzi contro di noi (solo in Francia ci sono 7 milioni di musulmani).

La Francia ha bombardato Raqqa, una risposta scontata dopo quanto è accaduto (molte sarebbero le riflessioni possibili, a partire dalle parole di Norberto Bobbio sulla “guerra giusta”). Ma, attenzione, la crisi non si risolve solo con le bombe. Lo si ripete spesso: vinta la guerra, bisogna saper vincere la pace; organizzare la fase successiva a quella militare: favorire un processo democratico (senza pretese egemoniche), per un assetto stabile in quell’area geopolitica complessa. E comunque: guai a perdere la testa: dobbiamo sapere che ci attendono giorni difficili, questo sì; che un attentato terroristico a Roma è qualcosa di più di un’ipotesi astratta. E’ giusto accettare che vengano rafforzati i controlli, i limiti, i blocchi di polizia… Si dice: così perdiamo la nostra libertà. No. Non c’è contrapposizione tra sicurezza e libertà. La sicurezza serve per garantire la libertà.

La libertà in tutte le sue forme. In questo ha ragione Papa Francesco. Non fare il Giubileo è un errore. Non solo per i religiosi – per chi ha fede – ma anche per i laici, per chi crede che la democrazia non abbia bisogno di Dio (Flores d’Arcais): perché non possiamo rinunciare alla nostra libertà. E’ quello che vorrebbero i terroristi. Prudenza, questo sì, ma anche libertà di azione. La libertà. Caratterizza la nostra civiltà, è un bene irrinunciabile. Dobbiamo continuare ad essere (e sentirci) liberi anche se in ogni momento oggi – non sembri una contraddizione – nelle nostre città siamo possibili bersagli: è saltata l’idea di obiettivi sensibili (il Colosseo, Piazza San Pietro…) dopo Parigi sappiamo che ovunque, al cinema, al ristorante, per strada, siamo obiettivi possibili. Il terrorismo ha cambiato strategia. Colpisce ovunque. Ovunque siamo in trincea. Ciò detto – se davvero vogliamo capire – chiediamoci anche perché nelle banlieue parigine (e nelle periferie di tutte le metropoli) covano e crescono molti terroristi. C’entra qualcosa il disagio sociale? L’emarginazione? Un giovane disperato, senza avvenire, senza futuro, senza lavoro… non è forse più facilmente succube del fanatismo islamico che gli propone il gesto eroico? Interroghiamoci. La barbarie non si configge solo con le armi, ma eliminando le ragioni che la determinano.

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