Crisis and Risk of Global Recession: The Future Is Not in the Economy

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di Giulietto Chiesa | 3 gennaio 2016

Crisi e rischio recessione globale: il futuro non è nell’economia

Sono appena trascorsi otto anni dall’inizio della crisi mondiale, se si prende come data di riferimento quella della bancarotta della Lehman Brothers. Da allora la gran parte dei commenti degli “esperti” è rimasta nell’ambito di una spiegazione tradizionale, cioè ha esaminato la situazione — che si prolunga ormai da tempo — come effetto di un “normale” avvicendamento di cicli di caduta e di crescita. Cioè siamo effettivamente in caduta, dopo – state tranquilli – ci sarà la crescita.

Ma sono molte le voci che dicono ormai che l’economia mondiale sta incontrando problemi molto più seri che quelli ciclici. Il ciclo classico era simile a un spirale ascendente. Questo ha l’aspetto di un circolo vizioso, che ritorna su se stesso. Il problema è come uscirne. Il sapere economico convenzionale ripropone una politica monetario-creditizia. Tuttavia in questi sette anni, tutti i tentativi di rimettere in moto la macchina con i tradizionali sistemi non hanno funzionato.

La bassissima crescita in tutti i Paesi industrialmente sviluppati influisce sui Paesi che definiamo “in via di sviluppo”. E questo, a sua volta, deprime le prospettive generali di uno sviluppo della produzione industriale globale.

In queste condizioni è evidente il rischio di una recessione globale. E’ possibile evitarla con qualche manovra finanziaria globale? Per esempio con la riduzione dei tassi d’interesse fino nei pressi immediati dello zero, come stanno facendo l’Europa, il Giappone e, fino a qualche giorno fa gli Stati Uniti? La recente inversione di tendenza, effettuata da Washington con l’aumento dei tassi d’interesse sembra piuttosto una scommessa che una strategia. Scommessa per stimolare la domanda, vero buco nero, ma non accompagnata da alcuna riforma strutturale della finanza globale. Ma è piuttosto probabile che questa decisione aggraverà drammaticamente un fenomeno che è già in corso: la fuga di capitali dai Paesi in via di sviluppo verso i Paesi industrialmente avanzati. Le cifre lo rivelano. Dal 2002 al 2014 si era registrato un flusso netto di denaro dai paesi sviluppati ai meno sviluppati, che era passato da 240 miliardi $ a 1,1 trilioni. Tendenza chiara che indicava come la finanza dei “ricchi” andava a investire nell’economia dei “poveri”. Per estrarne altra ricchezza, ovviamente.

Questa tendenza si è bruscamente invertita nel 2015. Per giunta modificando un trend che durava, nel complesso, da oltre trent’anni. In un solo anno oltre un trilione $ è ritornato ai paesi “ricchi” partendo dai paesi “poveri”. La decisione della Fed aggraverà questo fenomeno il cui significato è tanto chiaro quanto inquietante. I capitali non trovano, nei mercati in via di sviluppo, luoghi e occasioni per aumentare. Si tratta ora di vedere se troveranno occasione di farlo all’interno dei mercati “ricchi”. Ma non sembra, perché neanche nei paesi industrializzati la domanda cresce.

Le previsioni del Fondo Monetario Internazionale confermano questa valutazione. Tre anni fa c’era molto più ottimismo. Adesso si calcola che il tasso di crescita del Pil nell’anno 2020, sarà, per gli Stati Uniti, del 6% inferiore a quello pronosticato; per l’Europa sarà inferiore del 3%; per la Cina meno del 14%; per i paesi in via di sviluppo sarà inferiore del 10%. In sintesi la crescita del Pil del mondo sarà del 6% in meno di quanto pronosticato nel 2012.

Queste previsioni vanno di pari passo con quelle dell’inflazione. Secondo Larry Summers (ottobre 2015) nel periodo 2020-2025 l’inflazione nel paese più dinamico, cioè gli Usa, sarà attorno all’1,5%, molto al di sotto delle previsioni ufficiali. Nessuna delle banche centrali pensa di superare il 2%. La differenza tra i tassi d’interesse e l’inflazione è “straordinariamente bassa”. “L’attuale previsione per i prossimi dieci anni, per quanto concerne i paesi industrialmente sviluppati, dice che il tasso d’interesse sarà circa zero”.

Ne consegue, sempre secondo Summers, che “in presenza di tassi così bassi, la possibilità di un surriscaldamento dell’economia sarà molto bassa”. E l’economia mondiale si troverà nelle condizioni di bassa crescita, bassa inflazione, tassi eguali a zero, cioè le condizioni della piena stagnazione.

La diagnosi di Summers (e quanto sia importante la sua valutazione pubblica è evidente dalla sua influenza sui mercati americani) è drammatica. “I più grandi mercati del mondo ci stanno dicendo con forza sempre crescente che ci troviamo ora in un mondo diverso a quello cui eravamo abituati. Che gli approcci tradizionali che puntano su una finanza pubblica moderata, su un incremento monetario e sul freno all’inflazione ci portano verso il disastro. Inoltre, il principale strumento per contrastare la contrazione, cioè la politica monetaria, è in gran parte fuori gioco e sarà ancora meno efficace quando la contrazione sarà già attiva”.

Ma neanche Summers riesce a dire ciò che dovrebbe essere detto. Forse perché non esce dallo schema finanziario che è nella sua testa e nella testa di tutti i mercati. E cioè che ci sono eventi, nella vita reale, che non possono essere influenzati da alcuna politica finanziario-creditizia. Il riscaldamento planetario — Parigi è appena terminata con un nulla di fatto — dice appunto che il mondo di Summers non è più quello cui era abituato. E con lui tutti noi. La “mappa del denaro” (uso qui il titolo di un futuro, straordinario libro di Luigi Sertorio) non ci può più condurre alla crescita senza confini, cioè “all’isola che non c’è”. Stanno apparendo all’orizzonte i “limiti della crescita”, cioè l’impossibilità fisica di rappacificare la pure immensa potenza del denaro (infinito) con la soverchiante potenza della Natura (per quanto finita).

E’ un livello della contraddizione che presenta una complessità superiore alle forze concettuali dei mercati, e, dunque, che non può essere risolto da loro. Il compito del futuro sarà quello di organizzare le forze intellettuali esistenti nelle diverse civiltà, e nelle diverse discipline, capaci di lavorare a questo livello di complessità.

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