What If Hillary Hits the Jackpot in Congress?

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E se Hillary facesse l’«en plein» al Congresso?

I vecchi saggi non sono di moda nella Beltway. La cittadella della politica, a Washington, è in mano ad analisti che fanno girare i database elettorali su modelli con parametri che si aggiustano in tempo reale. Ma il vecchio saggio parla con cognizione: «Quando un candidato dice che le elezioni sono truccate, vuol dire che non coltiva più speranze di vincerle».

La sorte di Donald Trump non è più l’argomento principale dei salotti di Georgetown, il piatto forte sono le stime del distacco da Hillary. Da ciò dipende un’ipotesi che pareva eccentrica fino a un mese fa: che cosa succederebbe se i Repubblicani perdessero anche la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti? A quel punto non sarebbe più importante che Hillary diventasse il presidente con il più basso gradimento della storia americana. Anche senza raggiungere il 50% del voto popolare, la piena legittimazione verrebbe dalla maggioranza dei rappresentanti democratici alla Camera. Hillary avrebbe il controllo del Congresso e mano libera sull’agenda del quadriennio. Politiche un tempo impensabili potrebbero aprire una nuova era per la società americana.

Dal 1952 a oggi la Camera ha cambiato maggioranza solo tre volte, ma due di queste negli ultimi dieci anni. Nel 2010 i Repubblicani si sono assicurati la maggioranza più ampia dal 1928 e hanno ridisegnato i collegi in modo da rendere ancora più sicura la conferma dei candidati in carica. Una posizione di forza così inattaccabile che due anni fa, quando Donald Trump era solo una star dei reality, i Democratici, certi della sconfitta, avevano messo in lista diversi candidati di bassa caratura.

Ma all’improvviso lo scenario di un cedimento finale di Trump, tale da trascinare il partito Repubblicano, non è più implausibile. In particolare nei collegi suburbani, dove la presa ideologica del partito è meno forte, la partita si è riaperta. Se il vantaggio percentuale di Hillary nel voto popolare fosse di almeno 10 punti, la maggioranza della Camera potrebbe clamorosamente cambiare.

Lo stesso potrebbe avvenire se l’insistenza di Trump sulle elezioni truccate e sul tradimento dei vertici del partito allontanasse dalle urne molti elettori conservatori o se addirittura, alla fine di ottobre, avvicinandosi la sconfitta, Trump consigliasse ai suoi di non votare, per rafforzare la congettura di un voto manipolato e di un esercizio democratico ingannevole, preparando a se stesso un ruolo di tribuno televisivo. Prospettive che hanno seminato il panico nell’establishment conservatore. I seggi dei candidati più moderati sarebbero a rischio, lasciando il partito sotto l’influenza del Tea Party e del Freedom Caucus. La rottura nei rapporti in Ohio tra il partito e Trump sembra solo un amaro antipasto della resa dei conti dopo un’elezione che sta andando storta.

Ma cambiamenti ben più radicali diventerebbero possibili. In quattro anni Hillary potrebbe invertire la corrente storica apertasi con le politiche liberiste di Ronald Reagan. Anziché perseguire un astratto obiettivo di libertà su scala globale, Hillary sembra più interessata a occuparsi del malessere con cui i cittadini americani vedono le forze impersonali della tecnologia e le mutevoli circostanze globali influenzare la loro vita senza possibilità di contestarne gli effetti. L’approccio è rovesciato rispetto a 30 anni fa, finendo per recuperare il tema fondamentale del Novecento, quello dei rapporti tra capitale e lavoro non più sottratti al controllo democratico dall’a-priori del commercio globale.

Per quello che riguarda il lavoro, il salario minimo orario potrebbe essere portato rapidamente a 12 dollari, sarebbero rafforzati i principi della rappresentanza sindacale, mentre la copertura sanitaria varata da Obama verrebbe ulteriormente irrobustita anche con controlli sui prezzi delle medicine. In una fase in cui il commercio estero si sta riducendo e alcune produzioni tornano a essere localizzate vicino a casa, il rapporto tra lavoro e capitale, scardinato negli ultimi decenni dalla globalizzazione, potrebbe cambiare notevolmente anche attraverso politiche industriali, scelte incisive in materia energetica e forti investimenti pubblici per il rilancio delle infrastrutture. Dal lato del capitale, potrebbe riaffacciarsi la tassa sulle transazioni finanziarie e un aumento delle imposte sui capital gain con aggravi fiscali sui patrimoni del 2% più ricco della popolazione, quello che finora ha potuto avere la torta e mangiarsela.

Nel quadrante politico di Hillary c’è naturalmente l’obiettivo di riequilibrare il problema di disuguaglianza che ha lacerato il tessuto sociale americano negli ultimi decenni. Agli occhi del cittadino medio, non solo in America, la promessa di benessere dal commercio globale ha assunto un sapore ideologico perché i benefici appaiono astratti rispetto alle concrete conseguenze che colpiscono gli individui. Alla prova dei fatti, il sostrato politico della globalizzazione, cioè la convinzione che la libertà di commercio avrebbe portato democrazia in tutto il mondo, a cominciare dalla Cina, non ha retto l’impianto. Ma il pendolo sta tornando indietro soprattutto perché qualcosa dimostra di non funzionare nell’economia statunitense.

Anche nel Paese che rappresenta la frontiera tecnologica, c’è un problema di declino di produttività dovuto al fatto che le aziende più capaci continuano a migliorare, ma senza più trasferire alle altre i guadagni di produttività. Anche tra le imprese, come nella società, si divaricano i rapporti tra i più forti e i più deboli. Negli ultimi vent’anni si è ritenuto che il problema della diffusione della produttività fosse legato alla mobilità dei fattori e quindi alle famose riforme strutturali e a un investimento nell’istruzione, ma tutto ciò non ha impedito che anche negli Stati Uniti i guadagni di produttività si attenuassero fino a spegnersi. I Democratici sono convinti che si debba tornare a curare la domanda, migliorando il grado di coinvolgimento della classe media lavoratrice nella costruzione del benessere.

Il modo in cui Hillary affronta il tema dell’ingiustizia sociale rappresenta una rottura rispetto al passato e in una certa misura tenta di riportare indietro le lancette a quando le economie erano meno aperte, assecondando quello che Larry Summers ha chiamato – con orrore di ogni europeo consapevole – «nazionalismo responsabile».

In fondo è una linea molto sottile quella che separa il nazionalismo responsabile da quello irresponsabile. I Democratici vogliono credere che sia la stessa linea che separa Clinton da Trump.

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