The Value of Democracy Is at Stake in the Duel Between Trump and Hillary

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Nel duello tra Trump e Hillary è in gioco il valore della democrazia

Il rifiuto di un possibile esito a lui sfavorevole nel voto è l’ultimo passo del candidato repubblicano verso l’autoritarismo. Un tipo di atteggiamento che tra i suoi sostenitori, i tanti delusi e arrabbiati contro la politica tradizionale, funziona assai bene. E ripropone il conflitto, presente anche in Europa, tra sistema e antisistema

Rifiutando di accettare l’esito elettorale, Donald Trump compie un ultimo passo verso l’autoritarismo, e contro la democrazia. Trump non ha alcuna “suspense” da rovinare: dopo l’ultimo dibattito presidenziale, e i giorni di propaganda sulle elezioni “truccate” che lo hanno preceduto, è evidente che per il magnate il voto sarà regolare soltanto se gli risulterà favorevole.

Lo dice chiaramente anche la sua campaign manager, Kellyanne Conway, trasformando – al solito – la tragedia in farsa: non c’è nessun pericolo, “Trump accetterà l’esito elettorale perché tanto sarà lui a vincere”. Che sia irresponsabile giocare a questo modo con il fondamento stesso del processo democratico – accettarne le regole – non sembra interessare a nessuno, tra i trumpiani. Che infatti da ben prima del dibattito intasano bacheche Facebook e Twitter di post che sostengono come la democrazia sia già di fatto inesistente, “corrotta” come Hillary Clinton e l’establishment che rappresenta.

È un vezzo autoritario, certo, dire che non c’è differenza tra regime e democrazia, ma a giudicare dall’entusiasmo raccolto online funziona piuttosto bene tra i tanti delusi e arrabbiati con la politica tradizionale a cui Trump si rivolge. L’equivalenza è falsa, ma il problema resta, e terribile: Trump non gioca più allo stesso livello della rivale; il dibattito non è, se mai lo è stato davvero, tra sfidanti di una competizione democratica, ma tra una candidata insincera, a credere al materiale pubblicato da WikiLeaks, e a tratti robotica, se si vuole, ma sostanzialmente corretta, e un aspirante caudillo.

L’usuale guerra tra una visione “liberal” e una conservatrice del mondo si arrende, di fronte alla retorica tipicamente autoritaria di Trump. Lo scontro, come in molti paesi europei, è piuttosto anche negli States tra il sistema e l’antisistema, la politica e l’antipolitica, la (ben ammaccata) tradizione e un “populismo autoritario” che rende l’ascolto del popolo unicamente un pretesto, e un grimaldello, con cui scardinare gli interessi costituiti – e, insieme, la legittimità delle attuali istituzioni.

Per rendersene conto basta ripercorrere la retorica e l’ideologia trumpiana, l’insieme di proposte, pregiudizi, menzogne e sparate che ha portato il candidato più improbabile della storia fino alla soglia della Casa Bianca.

I pilastri, uno in fila all’altro, sorreggono una visione politica e sociale che mette i brividi, e riporta alla mente il peggio del secolo scorso. Deportazioni di massa, su base etnica e razziale. Muri, sempre a scopi di controllo razziale, per tenere al di fuori dei confini i “bad hombres” messicani. Incarcerare l’avversario, mettendone in questione la legittimità stessa a definirsi tale.

Militarismo sfrenato, con scarso o nullo riguardo per le conseguenze di una corsa agli armamenti che appare inevitabile, visti i toni e l’imprevedibilità dei continui attacchi in politica estera. Nazionalismo. Paternalismo (via l’aborto, siamo “pro-life”).

Elogi a dittatori del calibro di Putin e Assad. Leva sulla paura dell’altro e del diverso per giustificare ogni tipo di repressione in materia di sicurezza nazionale, compreso un fantomatico bottone per “spegnere Internet”. Anti-intellettualismo (l’unico intelligente, dice Trump, è lui stesso – gli altri, gli stupidi, sono i politici attuali, a partire da quelli al governo). Razzismo, conclamato e sostenuto da gruppi organizzati di “destra alternativa” mai realmente sconfessati. Sessismo, ripetuto alla nausea e confermato da quel “nasty woman” sibilato a Hillary, peraltro interrompendola con il solito sfrontato fare da padrone in azienda.

Media sempre corrotti e disonesti, che “avvelenano la mente degli elettori”. Insofferenza per la satira, come quella di Alec Baldwin al Saturday Night Live, che dice andrebbe chiuso. E una totale, patologica mancanza di rispetto per la verità. C’è chi, come Leah McElrath, tratteggia Trump all’interno della categoria dei molestatori con disturbi narcisistici di personalità. Ed è utile e terrorizzante.

Altrettanto dovrebbe tuttavia preoccupare il sovrapporsi sempre più evidente della figura trumpiana con quella dei leader autoritari della modernità. Il terzo e ultimo dibattito presidenziale, prima di ogni valutazione politica e in termini di sondaggi, dovrebbe suonare un allarme sulla capacità di tenuta democratica perfino di quella che si autodefinisce “la più grande democrazia” del globo, e che vorrebbe il suo presidente fosse il “capo del mondo libero”.

Una retorica palesemente stantia, come rivelato anche dalle doppiezze della candidata Clinton, la più accreditata a proseguirla e, in qualche modo, aggiornarla. Ma che rischia di mutarsi in un incubo di regressione liberticida nel caso i media, corrotti o meno, avessero davvero perso il polso dell’opinione pubblica. E si svegliassero, all’alba del nove novembre, in un paese che ha sconfitto la democrazia perché, tutto sommato, consapevolmente o meno, era proprio per questo che aveva deciso di recarsi democraticamente al voto.

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