Donald & Ronald: Trump sarà davvero il nuovo Reagan?
Che Donald insegua il sogno di essere il nuovo Ronald non è un mistero. A partire dallo slogan della campagna elettorale, “Make America great again”, già utilizzato da appunto da Reagan nel 1979 (ma anche da Bill Clinton nel 1992) e diventato – previo regolare acquisto dei diritti – la bandiera di Trump nella sua ascesa alla Casa Bianca. Per l’outsider Donald cercare una suggestiva investitura come erede dell’outsider Ronald era quasi un obbligo, nella sua rocambolesca avventura elettorale. Non a caso, il programma di Trump è per molti versi una fotocopia di quello di Reagan riveduta e aggiornata. A partire dal piede sull’acceleratore della spesa pubblica, sotto Ronald destinata alla Difesa e sotto Donald alle infrastrutture.
Ma ripulita dallo smalto del marketing elettorale, davvero la sostanza della Trumpnomics potrà rievocare i fasti della Reaganomics? Non è facile rispondere, però una cosa è certa: l’attuale stato di salute dell’economia americana è lontano anni luce da quello del 20 gennaio 1981, giorno in cui l’ex attore di Hollywood si insediò alla Casa Bianca.
All’inizio del 1981, infatti, gli Stati Uniti stavano tornando in recessione, con la Fed guidata da Paul Volcker che lottava a colpi di strette monetarie contro l’inflazione. I titoli di Stato statunitensi si compravano a prezzi stracciati, con tassi d’interesse che sfioravano il 15%. E anche l’azionario viaggiava vicino ai minimi storici, con valutazioni estremamente convenienti: il Dow Jones per esempio boccheggiava da anni e anni sotto i mille punti, un ventesimo di quanto vale adesso. All’inizio della presidenza Reagan, insomma, si verificarono le condizioni migliori per un potente stimolo fiscale in grado di fare ripartire brillantemente la Borsa, che infatti nel giro di quattro anni raddoppiò il suo valore.
Nell’era Trump la situazione è completamente diversa. I titoli di Stato sono molto cari, avendo raggiunto nell’estate i minimi dal secondo dopoguerra (1,6%, quasi un decimo dei rendimento dell’era Reagan) e Wall Street anziché ai minimi si ritrova ai massimi di tutti i tempi. Le incognite sul futuro non mancano. «In un suo recente intervento il presidente della Fed, Janet Yellen, ha ricordato che un rallentamento causato da shock della domanda potrebbe incidere sulla forza lavoro con ripercussioni negative e di lunga durata – spiega Mike Gitlin Responsabile del reddito fisso di Capital Group – . Sussiste inoltre il rischio che un inasprimento delle condizioni finanziarie, provocato dal rialzo dei tassi d’interesse, possa generare una battuta d’arresto della crescita. Non dimentichiamo che siamo all’89° mese di un’espansione che fa seguito a una recessione, mentre la durata media dei periodi di crescita dal dopoguerra a oggi è stata pari a 58 mesi».
Il quadriennio di “The Donald”, dal punto di vista economico, somigliapiuttosto a quello dei primi anni Cinquanta. Come nota Ed Clissold di Ned Davis Research, durante la seconda guerra mondiale la Fed si piegò alle esigenze belliche rinunciando ad alzare i tassi nonostante la superinflazione. Dopo anni di “repressione finanziaria” simili a quelli del recente passato, la banca centrale statunitense riconquistò la propria indipendenza all’inizio del 1951 avviando un percorso di rialzo dei tassi (allora al 2,5%, più o meno come ora) che sarebbe proseguito fino al 1966.
Ma gli anni Cinquanta furono anche quelli dell’enorme spesa pubblica in infrastrutture, con la costruzione di grandi autostrade e l’estensione delle aree urbane, qualcosa di simile a ciò che sogna Trump. L’azionario naturalmente salì. Come sta salendo anche oggi, nella promessa di una spesa espansiva. Anche se probabilmente non riuscirà a raggiungere le vette dell’epoca Reagan. Semplicemente perché è troppo caro.
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