Obama Putin (e non solo)
la scelta di un finale in attacco
I rapporti di fiducia costruiti con Mosca nei decenni scorsi , anche con gli alleati europei, vengono messi a dura prova dall’evidenza dei fatti
Sono gli atti e le parole, e non saranno le immagini, a rendere drammatica l’uscita di scena di Barack Obama dal teatro del mondo. Oggi è il momento dello scontro, il 20 gennaio sarà la volta del fair play. Il lungo addio a cui stiamo assistendo, previsto dalla Costituzione americana, sta diventando ancora più lungo se misuriamo il tempo calcolandone l’intensità e non solo la durata. Non siamo di fronte soltanto a un grande spettacolo, come talvolta può essere anche la storia. Quanto sta accadendo in questa transizione avrà ripercussioni importanti sulla realtà dei prossimi anni. Sul futuro dell’America, naturalmente, e sui rapporti internazionali. Ma anche sulla vita dei cittadini di questo pianeta.
Nel passaggio difficile da presidente a cittadino, Barack Obama sembra voler interpretare almeno due parti, in attesa di lasciare la Casa Bianca a Donald Trump: il leader potente, non azzoppato o intimidito dall’imminente arrivo del suo successore e l’intellettuale rigoroso, a volte in passato anche troppo cerebrale, la cui sostanziale freddezza sta lasciando ora il campo alla cifra dell’emozione. Dell’intellettuale ha oggi lo «scandalo del contraddirsi». Fa sapere di vedere nei due Bush, padre e figlio, un «modello post-presidenziale» per la loro discrezione nell’affrontare temi pubblici, ma non sembra credere nemmeno lui molto alla promessa di voler ispirarsi al loro esempio. Racconta di cercare una quiete «interna», e aggiunge però che questo non vuol certo dire «essere quieto su tutto». Rivendica un’eredità che non è solo di governo, legata a un modo di vedere l’America, i suoi diritti, le sue libertà. Aver detto, nell’intervista a David Axelrod che se avesse potuto presentarsi una terza volta sarebbe stato rieletto, è apparso un’implicita critica a Hillary Clinton. Lo abbiamo pensato tutti, anche se il suo scopo – ha spiegato poi – era quello di «promuovere una riflessione sul rapporto tra il partito democratico e la classe lavoratrice bianca». Da qualunque parte si veda la questione, è proprio questo rapporto che la candidata democratica non è riuscita a difendere.
Ma arriviamo agli atti, oltre che alle parole. Il presidente democratico non ha voluto andarsene senza far pagare a Vladimir Putin le interferenze e le attività illegali condotte dagli hacker al soldo del Cremlino durante le elezioni di novembre. I provvedimenti decisi ieri, in particolare l’espulsione di trentacinque agenti segreti che agivano sotto copertura diplomatica e la chiusura di due compounds a New York e nel Maryland sono commisurati ad un coinvolgimento in «gravi violazioni internazionali». La dura reazione di Mosca è arrivata subito, mentre non è chiaro quali potrebbero essere nei fatti le mosse di Trump dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. Ma le ripercussioni di questa crisi politico-diplomatica che segna gli ultimi giorni della presidenza democratica non potranno svanire in un momento, anche se la linea della nuova amministrazione nei confronti di Mosca sarà completamente diversa rispetto al passato. Trump o non Trump, i rapporti di fiducia reciproca costruiti nei decenni scorsi, anche con gli alleati europei degli Stati Uniti, vengono messi a dura prova dall’evidenza dei fatti. E sarà forse più difficile, in alcuni Paesi dell’Ue, strizzare l’occhio al leader del Cremlino.
In ogni caso, a parte questo scontro con la Russia che segna la fine definitiva di un’epoca, Obama ha occupato con determinazione quel palcoscenico da cui dovrà scendere fra tre settimane. La risoluzione dell’Onu sugli insediamenti israeliani, approvata con l’astensione degli Stati Uniti, ha aperto un capitolo totalmente nuovo nella storia dei rapporti tra Washington e lo Stato ebraico: si è prodotto uno strappo con il governo Netanyahu che la prossima amministrazione cercherà immediatamente di ricucire. Per Obama gli insediamenti sono un ostacolo alla pace e impediscono di fatto la realizzazione dell’obiettivo dei «due stati». Trump vuole invece spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e si schiera senza mezzi termini a fianco di Israele. Per quanto riguarda la difesa dell’ambiente, Obama ha imposto il divieto permanente di trivellazione per l’estrazione di gas e petrolio in vaste aree dell’Artico e dell’Atlantico (una scelta che sarà complicato cancellare in tempi brevi) e ha annunciato la creazione di aree protette nello Utah e in Nevada che non potranno essere sfruttate dall’industria energica.
La verità è che sta prevalendo, nelle due parti della sua personalità, quella dell’intellettuale. Non è un caso che uno dei suoi programmi per il futuro sia quello di «promuovere la crescita di giovani leader democratici, organizzatori, giornalisti e politici». Oggi è la passione a vincere sulla politica. Non si spiega altrimenti la determinazione a fare, quando il conto alla rovescia è ormai iniziato, quello che per molte ragioni non era stato fatto prima. Lo spirito bipartisan e il rispetto assoluto delle regole, anche di quelle non scritte, sono stati i grandi punti di forza della democrazia americana: una democrazia che Trump (ricordiamoci le accuse di «falsificazione» delle elezioni, la strumentalizzazione della vicenda delle mail di Hillary, l’uso senza scrupoli della «post-verità») deve assolutamente imparare a rispettare pienamente. Anche con il buon esempio del suo predecessore.
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