Gli alleati della nuova America
I guerriglieri anticapitalisti che dalla rivolta di Seattle del 1999 hanno contestato tutti i vertici economici internazionali mai avrebbero pensato che il condottiero più efficace della battaglia «no global» sarebbe stato non uno di loro, ma un Paperone miliardario
Massimo Gaggi
L’avvento dell’era Trump sta cambiando equilibri e atteggiamenti. Il successore di Obama considera la Cina molto più pericolosa della Russia per il futuro dell’America e rischia di lasciare troppo spazio a Pechino sulla scena commerciale e politica internazionale, consentendo a Xi Jinping di proporsi come nuovo campione del free trade. Intanto, General Motors è sotto tiro per via delle Chevrolet Cruze prodotte in Messico. La giapponese Toyota, che da 30 anni costruisce stabilimenti negli Stati Uniti, minacciata di vedere le sue auto gravate da pesanti dazi perché ora ne vuole costruire uno in Messico. Ford e Carrier (gruppo United Technologies) che si guadagnano il plauso del nuovo presidente americano perché, cedendo al suo pressing, accettano di ridimensionare o cancellare i loro piani d’investimento in Messico. E poi attacchi ai giganti aerospaziali, dalla Boeing alla Lockheed, accusati di vendere prodotti troppo costosi all’Amministrazione federale (il nuovo Air Force One e i caccia F-35).
Lo strano «no global» che sta per insediarsi alla Casa Bianca fa inorridire i puristi del liberismo, soprattutto quelli conservatori, per il suo interventismo in economia che a tratti sembra un preannuncio di dirigismo, e per le picconate che assesta furiosamente ai trattati che regolano il commercio internazionale: le norme sulle quali è costruita la globalizzazione che è lo schema di riferimento di tutta l’economia mondiale da almeno un trentennio. Sicuramente dalla caduta del muro di Berlino con la fine del blocco sovietico e dalle liberalizzazioni cinesi di Deng Xiaoping. I guerriglieri anticapitalisti che dalla rivolta di Seattle del 1999 hanno contestato tutti i vertici economici internazionali mai avrebbero pensato che il condottiero più efficace della battaglia «no global» sarebbe stato non uno di loro, ma un Paperone miliardario che ha fatto i soldi vendendo case di lusso a gente che si è arricchita proprio grazie alla globalizzazione. Ma Donald Trump è davvero il sorprendente demolitore del modello economico dominante dell’ultimo terzo di secolo. E a cosa porterà la sua azione?
Qui i giudizi divergono: da un lato l’orrore degli economisti, certi delle conseguenze catastrofiche delle idee del neopresidente che, denunciando le regole del «free trade», provocherà un rallentamento dei commerci, spegnerà i motori dello sviluppo e seminerà la sfiducia nei mercati. Dall’altro il sostanziale ottimismo delle Borse che si aspettano, almeno nell’immediato, un forte impulso alla crescita: sviluppo che verrà stimolato dalla promessa «deregulation», da nuovi sgravi fiscali e dalla maggior spesa per investimenti pubblici, oltre che dalla volontà trumpiana di rafforzare l’economia Usa a scapito di tutte le altre, anche a costo di ricorrere agli strumenti del protezionismo.
Davvero basterà un Trump a far svanire nel nulla quello che fino a ieri era considerato uno schema ineludibile anche da chi criticava la logica del «pensiero unico» neoliberista? È lecito dubitarne per vari motivi: intanto perché il nuovo presidente populista sta facendo scelte apparentemente contraddittorie riempiendo il suo governo di «mercatisti»: miliardari, finanzieri e quei banchieri che fino a ieri diceva di detestare. E poi perché un presidente «dealmaker», a suo agio nel negoziato d’affari assai più che nei meandri del processo legislativo, potrebbe accontentarsi di una serie di vittorie simboliche sul rimpatrio delle fabbriche che rafforzano la sua immagine davanti all’elettorato (anche se a distruggere posti di lavoro Usa è più l’automazione che il trasferimento degli stabilimenti all’estero), accantonando o rallentando la complicata partita della revisione dei trattati che richiede l’impegno del Congresso e una disponibilità delle controparti internazionali. Accordi come il Nafta che lega gli Usa a Messico e Canada sono difficili da smontare anche per realtà economiche ormai consolidate: gran parte dei veicoli prodotti negli Stati Uniti montano oggi molti componenti prodotti in Messico: imponendo dazi, Trump punirebbe inevitabilmente anche il «made in Usa».
Mark Zuckerberg di Facebook che, secondo alcuni, studia da «anti-Trump», inizierà la sua «lunga marcia» da un viaggio attraverso l’America alla scoperta di cosa non ha funzionato nella globalizzazione: impensabile fino a qualche mese fa. E mentre gli Usa scivolano verso il protezionismo, se non verso forme di isolazionismo, spunta la Cina di Xi Jinping che tra qualche giorno andrà di persona al Forum economico di Davos, provando a diventare l’incarnazione di quell’«uomo di Davos» che fin qui era vestito a stelle e strisce, ma che ora è diventato un reietto nell’universo del nuovo presidente.
Probabilmente l’imprenditore che porta alla Casa Bianca la sua tendenza a sfidare i concorrenti rischiando il tutto per tutto pensa che, chiudendo alla Cina le porte del mercato Usa, il più vasto del mondo, indebolirà in modo sostanziale Pechino, costringendo Xi Jinping a più miti consigli. Schema che può funzionare nel confronto tra aziende «monocratiche». Più difficile applicarlo nella dinamica complessa dei rapporti tra superpotenze. Basti pensare alle sanzioni contro la Russia per l’Ucraina. Dovevano, secondo Obama, indebolire Putin e invece l’hanno rafforzato. Alimentando, per di più, il nazionalismo russo e i sentimenti antioccidentali.
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