The White House, the Military and Trump’s New Priorities

<--

La Casa Bianca, i militari e le nuove priorità di Trump

Sergio Romano 

Se il Congresso approverà la sua richiesta, la somma necessaria verrà raccolta grazie alla riduzione di spese civili che riguardano la protezione dell’ambiente dagli abusi industriali e programmi assistenziali ancora da definire.

Nelle ultime settimane Donald Trump ha scelto, per alcune fra le più importanti cariche del suo governo, tre generali: John Francis Kelly alla Sicurezza interna, James Mattis alla Difesa e Herbert R. McMaster alla Sicurezza nazionale. 

Può darsi che il nuovo presidente abbia un debole per i ministri in uniforme. Ma non ha preso decisioni fondamentalmente diverse da quelle di molti dei suoi predecessori. Nella democrazia americana la casta militare è stata, sin dalla dichiarazione di indipendenza, un utile serbatoio di competenze e talenti. 

E’ accaduto (cito a caso) anche negli Stati europei: Napoleone e De Gaulle in Francia; Wellington in Inghilterra; Hindenburg in Germania; Menabrea, Alfonso La Marmora e Badoglio in Italia, Francisco Franco in Spagna, l’ammiraglio Horthy in Ungheria; (per non parlare di quegli uomini politici che, come Stalin, sono diventati generalissimi dopo la conquista del potere).

Ma negli Stati Uniti la presenza di militari al vertice dello Stato è normale e frequente. Il primo presidente americano è un generale (George Washington). Il 18esimo presidente è un militare (Ulysses S. Grant) che aveva combattuto nella Guerra di secessione. Theodore Roosevelt non fu un militare di carriera, ma la popolarità che gli aprì le porte della Casa Bianca fu conquistata sui campi di battaglia di Cuba durante la guerra ispano-americana. Dwight D. Eisenhower fu, nell’ordine, comandante delle forze alleate durante la Seconda guerra mondiale, comandante delle forze assegnate alla Nato nei primi anni della Guerra fredda e 34° presidente. Non è sorprendente che un appellativo molto frequente del presidente degli Stati Uniti sia quello di «commander in chief», comandante in capo, previsto da un articolo della Costituzione.

Sono stati numerosi anche i generali che hanno «comandato» la diplomazia americana. George Marshall, padre del grande piano economico che porta il suo nome, fu segretario di Stato dal 1947 al 1950; Alexander Haig per un anno e mezzo fino al luglio 1982: Colin Powell, dal 2001 al 2005. Anche Barack Obama, fra il 2009 e il 2018, si è servito di un generale, James Logan Jones, per la presidenza del Consiglio di sicurezza nazionale. Dietro questi frequenti connubi fra il mestiere delle armi e quello del governo vi è una formazione scolastica. Esistono negli Stati Uniti alcune decine di accademie e collegi militari. Alcuni sono sostenuti finanziariamente dal Dipartimento della Difesa, ma gli altri, molto più numerosi, sono privati. L’America è un grande Paese democratico, ma anche per molti aspetti una nazione militarista con tratti che ricordano la Francia napoleonica, la Germania prussiana e il Giappone sino alla fine della Seconda guerra mondiale. 

Credo che questo spieghi la relativa facilità con cui il Paese ricorre alle armi, anche se con risultati spesso deludenti (Vietnam, Afghanistan, Iraq) o tragicomici (l’occupazione di Grenada nel 1983). Certamente spiega i 54 miliardi di dollari che Trump intende aggiungere a un bilancio militare che già ammonta oggi a 549 miliardi di dollari. Se il Congresso approverà la sua richiesta, la somma necessaria all’aumento della spesa militare verrà raccolta grazie alla riduzione di spese civili poco gradite a Trump: quelle che riguardano la protezione dell’ambiente dagli abusi industriali e programmi assistenziali ancora da definire. 

About this publication