Silicon Valley, the New Athens

<--

Silicon Valley, la nuova Atene

È nella patria dei colossi tecnologici che dominano la nostra era iperconnessa che l’Occidente tenta un ultimo colpo di coda contro la barbarie arrembante dei nazionalismi

Nel deserto della post-ideologia – in cui destra e sinistra si equivalgono, la politica si riduce ad amministrazione e le politiche a tweet – è Silicon Valley la nuova Atene. È nella patria dei colossi tecnologici che dominano la nostra era iperconnessa, siamo costretti a dire, che l’Occidente tenta un ultimo colpo di coda contro la barbarie arrembante, i nazionalismi che – da Trump a Brexit a Le Pen – sembrano imporre quella che Antonio Gramsci avrebbe chiamato una “egemonia culturale”, e oggi potremmo definire “egemonia incolta”. Lì che il mondo prova a immaginarsi in decenni, non istanti. Lì che si producono pensiero e visione. Mentre tra i partiti tradizionali la parola “programmi” fa sorridere, sostituita dal primato assoluto della comunicazione, sono i miliardari che comandano Microsoft, Tesla, Facebook a parlare di idee, quando non a incarnare vere e proprie ideologie.

L’opposizione di centinaia di aziende tecnologiche al divieto all’immigrazione. Apple, Ibm e Arbnb alla guida della protesta contro le discriminazioni dell’amministrazione Trump ai transgender. Bill Gates che vuole tassare i robot contro la disoccupazione da automazione. Elon Musk che propone di aggiungervi un reddito minimo garantito, per colmare il gap competitivo tra carne e bit – oltre che trasformare il viaggio su Marte in realtà.

Sono tutti esempi di impegno fortemente politico, nel senso proprio del termine: occupare uno spazio di discussione pubblica, e farlo con progetti sociali di lungo periodo. Nessuno, però, lo sta occupando quanto Mark Zuckerberg. È lui ad avere steso un vero e proprio “manifesto” di seimila parole che, nella riduzione giornalistica di molti, si proporrebbe nientemeno che di “salvare il mondo”.

La realtà tuttavia è appena meno ambiziosa. Al suo interno, infatti, il fondatore ipotizza che la sua creatura, Facebook, non possa essere più solo un social network, ma debba diventare una vera e propria “infrastruttura sociale per dare alle persone il potere di costruire una comunità globale”. Ovvero, tradotto dal politichese che ha ormai contagiato anche la Valley, il sostrato della nuova democrazia “connessa”. Per questo da anni Zuckerberg cerca – e con un certo successo, dicono le statistiche – di confondere, nella percezione comune, Internet e Facebook. Per questo ripete alla nausea, come in ogni buona campagna di propaganda politica, il proposito di connettere i miliardi di cittadini ancora costretti offline, specie in Africa e Asia, tramite il progetto inizialmente chiamato non a caso “internet.org”, e oggi rinominato “Free Basics”.

Gestire le vite pubbliche e intime di 1,8 miliardi di persone nel globo non basta: tutti devono essere collegati alla rete; cioè a Facebook, perché è Facebook la nuova agorà democratica, il nuovo grado zero dell’opportunità di far parte di una civiltà che dialoga. Molti osservatori hanno ipotizzato, non senza ragione, che Zuckerberg celi ambizioni presidenziali. E diversi fatti le confermano. L’intento di visitare, entro il 2017, ogni Stato degli USA per meglio comprendere come gli americani comuni “vivano, pensino e concepiscano il futuro” viene direttamente dal manuale del buon politico; così come i post con cui sta riempiendo la sua pagina personale, curati da uno staff dedicato alla sua immagine e pieni di storie di singoli individui e comunità a cui il sesto uomo più ricco del mondo sembra essere improvvisamente molto interessato – lui, accusato di avere cominciato ad accumulare una fortuna da 45 miliardi di dollari violando la privacy degli studenti dei campus universitari statunitensi.

Ma non è questo il punto. Il punto è che le ambizioni politiche delle parole, sempre più esplicitamente programmatiche, di Zuckerberg vanno perfino oltre. Con la sua Chan Zuckerberg Initiative, infatti, si propone nientemeno che di “curare, prevenire o gestire” tutte le malattie esistenti “entro la fine del secolo”. Se la ricerca a propulsione statale langue, nei suoi laboratori invece corre a una velocità difficile perfino da computare.

Facebook ha sottratto ai centri di ricerca universitari alcuni dei migliori studiosi del campo, in vertiginosa ascesa, dell’intelligenza artificiale, così che oggi il trentaduenne è più credibile di qualunque legislatore quando si propone di curare il male “fake news” tramite algoritmi, invece che a suon di leggi. E mentre l’opinione pubblica e le istituzioni faticano ancora a digerire la transizione al digitale, Zuckerberg acquista i maghi di Oculus VR per essere alla guida anche del prossimo passo del social networking: quello in cui i post degli amici non si leggono o guardano più solamente, nemmeno a 360 gradi, ma si vivono in realtà virtuale, dando al concetto di “condivisione” coloriture empatiche che aprono scenari inediti per il collettivo umano.

Certo, il monarca di Facebook ha ancora molto da imparare in termini di filosofia politica. Ma lo sta facendo in fretta, come testimoniano le letture che periodicamente consiglia: testi che spaziano dalla geopolitica alla povertà nel mondo, dalla questione carceraria alla filosofia della religione e della scienza – segno di una curiosità interdisciplinare che, scrive Sandro Modeo sul Corriere della Sera, lo contraddistingue da sempre. Certo, il filantropo e il teorico non escludono il neoliberista che si avvale di ogni scorciatoia fiscale per eludere il fisco ovunque possa, né l’alfiere di un mondo tutto di dati, tutto quantificato, in cui si producono discriminazioni automatiche e “bolle” che ci ingabbiano sempre più in ciò che già pensiamo.

Così le persone rischiano di mutarsi in gadget di autopropaganda quando non in cavie a loro insaputa: come negli infiniti test che, manipolando in modo opaco gli algoritmi di ordinamento del mondo di Facebook, manipolano anche le nostre emozioni e preferenze politiche. Ma la sensazione che il presente e, soprattutto, il futuro si giochino nei binari imposti da Silicon Valley più che dai partiti e dai loro teorici resta. E sì, fa paura.

About this publication