Il capo dell’Fbi licenziato da Trump Le due date chiave dietro un atto grottesco (e di gravità inaudita)
Alla base del cambio di rotta di Trump c’è il caso Russia. E due momenti precisi. Il rischio, per il presidente, è che questo sia il suo «Watergate»
Tutto è grottesco nei modi e negli argomenti usati da Trump per cacciare il capo dell’Fbi: James Comey messo alla porta perché un viceministro fresco di nomina lo accusa di aver gestito male il caso Hillary Clinton l’anno scorso, durante la campagna elettorale. Una gestione per la quale Comey era stato più volte elogiato dal presidente che, a gennaio, gli aveva anche stampato un bacio su una guancia in pubblico. Il capo degli investigatori federali licenziato senza nemmeno avvertirlo con una telefonata durante in viaggio in California e mentre il Congresso è chiuso per un «recess».
Il precedente
L’atto è di una gravità inaudita, con un solo precedente nella storia americana (un caso caratterizzato, peraltro, da circostanze assai meno controverse) comunicato con una lettera stranissima: Comey, che apprende di essere stato licenziato dalle notizie che scorrono sui teleschermi alle sue spalle mentre sta tenendo un discorso a Los Angeles, ufficialmente va via perchè ha fatto perdere credibilità all’Fbi con la gestione del caso Clinton, ma nella sua breve missiva Trump si preoccupa solo di sottolineare che per ben tre volte Comey gli ha assicurato che lui non è sotto inchiesta.
Le ragioni dietro il cambio di rotta
È evidente che alla base del cambio di rotta del presidente c’è il caso Russia. I democratici, che pure avevano chiesto la sua testa accusandolo di aver danneggiato la Clinton durante la campagna elettorale, sospettano che Comey avesse scoperto qualcosa di grave sui rapporti del team Trump con Mosca e tracciano un parallelo col Watergate quando, il 20 ottobre del 1973, Richard Nixon cacciò Archibald Cox, il procuratore speciale che indagava su quello scandalo. Abbandonato anche dai repubblicani, per Nixon fu l’inizio della fine. I democratici sperano che vada così anche stavolta ma al momento, pur in presenza di molti indizi, non sembrano esserci prove inconfutabili di collusioni di Trump col Cremlino.
Le date chiave
Ma le indiscrezioni che escono della Casa Bianca descrivono un presidente sempre più furioso per l’incapacità dei suoi uomini e del suo partito di mettere a tacere questa controversia. E qui spuntano due date cruciali: il 20 marzo scorso, quando Comey informò il Congresso che l’Fbi stava conducendo un’inchiesta formale sul Russiagate. La seconda data è meno definita, ma va collocata intorno a due settimane fa: l’istituzione di un «gran jury» su possibili crimini commessi da Michael Flynn, l’ex generale sospettato di collusione coi russi che Trump scelse come Consigliere per la sicurezza nazionale e poi fu costretto a licenziare, una volta scoperto che aveva tradito la fiducia del vicepresidente, Mike Pence. La notizia del «gran jury» è stata tenuta segreta fino a ieri sera, ma Trump sapeva e sicuramente era furioso: questo organo ha potere di «subpoena» e l’ha già usato per citare in giudizio vari testimoni dell’Amministrazione che rischiano l’arresto se non rispondono a tutte le domande.
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