North Korea Is a Pawn in the Chess Game between the US and China

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La pedina Corea del Nord nel gioco a scacchi tra Cina e Stati Uniti

La Corea del Nord da venerdì scorso è entrata ufficialmente nel club di quei Paesi che hanno missili balistici intercontinentali (ICBM). Per la prima volta è stato confermato che il vettore finito nel Mar del Giappone a 100 km dall’isola di Hokkaido (quindi dopo un volo di 1000 km ed un apogeo di 3700) era un missile capace di una gittata, stimata, di 10mila km, quindi in grado di colpire il territorio continentale degli Stati Uniti dalla costa occidentale sino a Chicago. Il test, che in realtà si tratta di una vera e propria esercitazione a fuoco, ha sorpreso gli analisti che sino a pochi mesi fa ritenevano che Pyongyang non potesse disporre di un tale vettore missilistico prima del 2020, ma a quanto sembra il KN-20 (o Hwasong-14) è in grado di trasportare un carico di 600/650 kg, abbastanza quindi per portare la minaccia nucleare direttamente sul territorio americano. Sino ad oggi infatti tale capacità era riservata solo ai missili a raggio intermedio (IRBM) tipo KN-14 (o KN-08 Block II) e già in grado di colpire le Hawaii o l’Alaska e ai MRBM tipo KN-17 capaci di colpire l’area limitrofa alla penisola coreana, quindi il Giappone, Taiwan e le Filippine settentrionali. Il lancio del missile, come vuole la migliore tradizione nordcoreana, non è casuale: arriva immediatamente dopo la minaccia di inasprimento delle sanzioni internazionali, come già avvenuto in precedenza durante il lancio di metà maggio scorso, quando la legazione nordcoreana al Palazzo di Vetro ha esposto una richiesta formale di riconsiderare il sistema delle sanzioni verso Pyongyang. Uno strumento di pressione, quello dei lanci missilistici, che statisticamente ha avuto una impennata negli ultimi 8/10 mesi e che rientra perfettamente nella politica della Corea del Nord che da sempre utilizza lo strumento militare come moneta di scambio al tavolo delle trattative. Trattative che vedono impegnati quelli che sono i veri attori della vicenda: gli Stati Uniti e la Cina.

Sul piatto c’è ben più della Corea del Nord ed entrambe le (super)potenze lo sanno bene. Tutto nasce qualche anno fa grazie alla politica di Obama di disimpegno dai teatri di “crisi” del mondo delegando la risoluzione delle questioni non più ad un intervento diretto americano ma sovvenzionando e sostenendo le forze locali affinché fossero in grado di risolvere la situazione in favore di Washington. Un esempio di questa politica più vicino a noi? Le sedicenti “Primavere Arabe” e la questione siriana. Allo stesso modo in Estremo Oriente la presenza militare americana venne ridotta al minimo indispensabile, complici anche i tagli alla Difesa volti ad una razionalizzazione e rimodernamento della stessa, con il progressivo ridimensionamento di comandi, ritiro di reparti e parallelamente aumento della spesa per il sostegno ai Paesi nell’area (Corea del Sud, Giappone, Filippine ma anche Vietnam e Taiwan). Ovviamente, come sempre accade, i “vuoti di potere” vengono rapidamente occupati e Pechino non si è lasciata sfuggire l’occasione. Forte di una economia in perenne crescita che la vede tra i primi importatori di acciaio ed idrocarburi, la Cina ha messo in pratica una politica estera chiamata “a fetta di salame” intendendo con questo termine il graduale incremento di azioni militari e diplomatiche, nessuna delle quali in sé considerabile come casus belli, per cambiare lentamente, ma costantemente, lo status quo a proprio favore. Tattica politica che è stata impiegata ed ha dato i propri frutti in quella che Pechino considera la propria Zona di Esclusività Economica (EEZ), ovvero quei mari che la circondano in cui sono situati gli arcipelaghi delle isole Spratly, Senkaku e Paracelso che la Cina rivendica unilateralmente come appartenenti alla propria sovranità territoriale. Le ragioni di questo neo-espansionismo cinese sono essenzialmente quattro, come individuato anche da un documento ufficiale del Congresso degli Stati Uniti del 18 settembre 2015: il controllo delle rotte commerciali che passano in quei mari che assicurano un traffico stimato di circa 5mila miliardi di dollari l’anno, il controllo delle ingenti risorse di idrocarburi presenti nell’area e dell’attività di sfruttamento ittico, acquisire delle posizioni avanzate in funzione di controllo militare dell’area in un possibile scenario futuro di proiezione di forza (i famosi “bastioni marittimi”) , e un rinnovato sentimento di orgoglio nazionalista. In aggiunta a questi fattori alcuni osservatori fanno anche notare che la Cina vuole acquisire un maggior grado di controllo dell’area per creare una zona cuscinetto in modo da tenere lontano dal proprio territorio metropolitano le forze armate americane in caso di conflitto, creare un bastione marino sicuro da utilizzare per la propria forza di sottomarini lanciamissili balistici e soprattutto diventare la potenza egemone dell’area. Tutti obiettivi che sono in fase di acquisizioni tramite azioni diplomatiche, militari e soprattutto grazie al rilancio delle Forze Armate (soprattutto navali) che hanno visto un aumento vertiginoso di fondi che porterà ad un raddoppio entro il 2020: il budget di Pechino in meno di 10 anni passerà dai 123 miliardi di dollari del 2010 ai 233 del 2020, quando sarà quattro volte più grande di quello inglese e maggiore di quello di tutti i Paesi dell’Europa Occidentale messi insieme, restando, ben inteso, sempre lontano dai 622 miliardi di dollari spesi da Washington per la Difesa nel 2016 ma pur sempre quasi 3 volte di quello russo pari a circa 48 miliardi di dollari (fonte IHS Markit). Aumento di fondi che, a cascata, ha provocato un parallelo aumento di spese per la Difesa dei Paesi dell’aera: nella zona Asia Pacifico (Apac) le spese hanno avuto un vero e proprio boom in questi anni recenti, anche causati dall’espansione economica della regione, e la tensione nel Mar Cinese Meridionale, ne accelererà la crescita. Tra il 2011 ed il 2016, anni in cui Pechino ha mostrato i muscoli nell’area, i Paesi che circondano quel mare hanno speso complessivamente 166 miliardi di dollari e si prevede che nei prossimi 4 anni queste arriveranno a circa 250 miliardi di dollari con la priorità data agli armamenti di tipo navale ed aereo. La Cina infatti ha dimostrato di essere fermamente decisa ad impossessarsi di quegli arcipelaghi contesi, e, soprattutto nelle isole Spratly situate nel Mar Cinese Meridionale, la presenza militare cinese è ormai ben affermata: oltre alla costruzione di isole artificiali sede di attracchi e piste di atterraggio le isole sono state militarizzate nonostante il divieto espressamente posto dagli Stati Uniti. Sistemi di difesa Anti Aerea, cacciabombardieri e naviglio militare ormai sono di stanza in quell’arcipelago sito a breve distanza dalle Filippine.

La risposta americana a questo nuovo espansionismo cinese è andata differenziandosi a seconda delle amministrazioni. Premesso che, indipendentemente da chi siede alla Casa Bianca, gli Stati Uniti non possono permettersi di vedere il nascere di una potenza regionale egemone con il rischio che diventi una potenza globale e che quindi possa minacciare direttamente gli interessi cardine americani, con Obama (ed un Congresso diviso tra chi guarda con timore e cupidigia all’Asia e chi è ancorato all’Europa e alla Russia), hanno avuto una linea morbida fatta di rivendicazioni del diritto di libertà di navigazione nei mari e nei cieli esplicata tramite sorvoli di bombardieri B-52 oppure con crociere ad hoc di unità navali. Parallelamente Washington non ha mai preso una posizione chiara sulla questione del Mar Cinese Meridionale ma si è limitata a sostenere che simili dispute territoriali debbano essere risolte “pacificamente senza coercizioni o intimidazioni, senza l’uso della forza, quindi le parti in causa devono evitare azioni unilaterali che possano pregiudicare tale principio” aggiungendo che il principio deve essere quello che le rivendicazioni territoriali debbano rispettare i limiti di piattaforma per stabilire la propria EEZ. Con il cambio di amministrazione alla Casa Bianca il vento è cambiato. A metà dicembre, con Trump appena eletto e non ancora insediato, la Cina ha sequestrato un drone di una nave oceanografica americana al largo di Subic Bay (Filippine) in risposta alle parole del Presidente americano che ricusava la politica della “One China” che è sempre stata il punto cardine tra i due Paesi. L’azione ha fatto da corollario a esercitazioni a fuoco condotte dalla Cina nello stretto di Taiwan effettuate immediatamente dopo le parole di Trump. La nuova amministrazione americana, infatti, sembra non voler prendere la questione coi guanti bianchi come fece la precedente: il Segretario di Stato Rex Tillerson, che oggi all’indomani del lancio dell’ICBM nordcoreano ha parole rassicuranti nei confronti del regime di Pyongyang (“Non vogliamo un collasso del regime, non vogliamo un cambio di regime”), lo scorso febbraio è stato perentorio in merito alla questione delle isole contese affermando che “Dobbiamo dare alla Cina un chiaro segnale che, primo, debbano cessare la costruzione delle isole, e secondo, il loro accesso alle stesse non deve essere permesso”. Parole che sono suonate come una sorta di ultimatum tanto da far dire a Pechino, attraverso la televisione di Stato, che un eventuale blocco delle isole porterebbe ad un “Confronto devastante” tra le nazioni coinvolte. Alle parole sono seguiti i fatti con l’invio di nuove truppe e di sistemi di difesa come il THAAD oltre che a dimostrazioni di forza della settima flotta congiuntamente con quella nipponica senza dimenticare il recente invio dei bombardieri strategici B-1B “Lancer” un tempo dotati di capacità nucleare. Questo anche al netto dell’incontro in Florida tra i due Capi di Stato che sembrava aver segnato l’apertura di una stagione di dialogo e prosperità tra le due nazioni, ma che, a conti fatti, sembra essere presto dimenticata alla luce di quanto sta avvenendo nelle acque del Mar del Giappone e del Mar Cinese Meridionale.

Pechino infatti sa bene che la propria influenza sullo scomodo alleato nordcoreano è un’arma per dialogare con Washington ed usa quindi Pyongyang a proprio piacimento a seconda dei propri interessi. Le esercitazioni missilistiche di questi mesi sono da leggersi come un modo non solo di Pyongyang di parlare alla comunità internazionale, ma soprattutto come la modalità che ha la Cina di dialogare con gli Stati Uniti: l’installazione del THAAD (il sistema antimissile di teatro) in Corea del Sud da parte di Washington è vista come fumo negli occhi da parte di Pechino che crede che un tale sistema, per la sue capacità operative, serva a controllare e minacciare l’attività militare cinese nell’area (e potrebbe non avere tutti i torti) e quindi usa la propria influenza su Pyongyang come uno strumento di pressione sugli Stati Uniti. Del resto se si guarda agli armamenti dell’Esercito Popolare della Corea del Nord si può capire come questo debba molto all’aiuto cinese (insieme a quello iraniano e russo). Per fare un esempio: i mezzi ruotati a 8 assi che servono a trasportare e lanciare i missili nordcoreani sono di fabbricazione cinese, e così tante altre tipologie di armamento che si sono viste nella parata militare dello scorso aprile.

La Cina pertanto usa la Corea del Nord come una pedina per i propri interessi avendo anche ben presente che la riunificazione della penisola coreana sotto la bandiera degli Stati Uniti sarebbe una possibilità assolutamente da evitare perché vorrebbe dire avere basi americane a pochi chilometri dai propri confini; Pyongyang serve anche a Pechino come strumento di pressione verso gli alleati dell’America nell’area in chiave delle proprie rivendicazioni territoriali come abbiamo visto e grazie alla forte dipendenza dalle importazioni del regime di Kim Jong-un si trova ad avere gioco facile. Gli Stati Uniti dal canto loro, sebbene debbano rassicurare Giappone e Corea del Sud da un possibile attacco (non solo nucleare ma anche chimico) da parte della Corea del Nord, sanno bene che la presenza del regime permette loro di giustificare il mantenimento nell’area di una consistente forza militare in chiave anticinese che altrimenti non avrebbe modo di esserci.

In tutto questo la Russia è l’elemento che potrebbe fare da terzo incomodo e sparigliare le carte in tavola: recentemente, anche al netto della cooperazione con la Cina, Mosca ha aperto dei canali ufficiali (diplomatici e commerciali) con Pyongyang che la sottrarranno parzialmente dall’isolamento impostole dalla comunità internazionale ma che, più realisticamente, serviranno al Cremlino ad affermare la propria forza in campo internazionale in un teatro che era stato dimenticato nell’ultimo decennio.

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