L’allarme dell’intelligence Usa: “Perché temiamo l’esercito russo”
“Gli Usa preferiscono seguire la legge del più forte e non il diritto internazionale. Sono convinti di essere stati scelti e di essere eccezionali, di avere il permesso di modellare il destino del mondo, di essere gli unici nel giusto. Agiscono come vogliono. Qui e là usano la forza contro Stati sovrani, creano coalizioni in accordo col principio: chi non è con noi è contro di noi”. Comincia con le parole di Vladimir Putin pronunciate all’Assemblea Federale Russa in occasione del referendum per l’annessione della Crimea (18 marzo 2014) il rapporto annuale della DIA (Defense Intelligence Agency) sul potenziale militare russo pubblicato a giugno di quest’anno.
La DIA, una delle agenzie di sicurezza e spionaggio più importanti del mondo, ogni anno, sin dal 1981, pubblica un dettagliato reportage sull’assetto della Difesa della Russia per informare sia il governo sia il pubblico americano sulle ultime novità in fatto di armamenti e dottrina militare di Mosca. Quest’anno leggerlo è stato come fare un tuffo nel passato ed un ritorno alla Guerra Fredda: il direttore dell’agenzia, il Ten.Gen. (Usmc) Vincent Stewart, non utilizza mezzi termini per parlare della Russia. Secondo lui, infatti, il ritorno di Mosca sul palcoscenico globale pone una sfida essenziale per gli Stati Uniti dato che il Cremlino continuerà a perseguire aggressivamente i propri obiettivi in politica estera e sicurezza impiegando tutto lo spettro delle capacità dello Stato: dalla potenza militare alla manipolazione delle informazioni. Nei prossimi 10 anni, si legge, una Russia più capace e sicura di sé potrebbe emergere, pertanto gli Stati Uniti hanno bisogno di anticipare le azioni russe piuttosto che reagire alle stesse e perseguire una più grande consapevolezza delle capacità e degli obiettivi geopolitici di Mosca per prevenire possibili conflitti.
Il documento inizia la sua trattazione con una breve ma esaustiva trattazione sullo stato delle Forze Armate russe dal disgregamento dell’Unione Sovietica sino alla prima decade degli anni 2000 indicando come la drammatica carenza di fondi, personale e prontezza operativa ne inficiò pesantemente l’efficienza e come questa situazione pose in essere l’esigenza fondamentale di riformare e modernizzare tutto l’apparto militare russo; esigenza solo parzialmente risolta a partire dalla fine degli anni ’90 ed i primi del XXI secolo con una serie di tentativi di riforma annunciati, discussi ma solo infruttuosamente implementati. Il punto di svolta viene indicato con la crisi georgiana del 2008: sotto la guida del Ministro della Difesa Anatoly Serdyukov viene varato il programma “New Look” per cambiare in modo efficace e incisivo l’assetto delle Forze Armate da uno stile “Guerra Fredda” ad uno moderno, professionale e capace di rispondere alle esigenze imposte dai conflitti del XXI secolo (prontezza, asimmetria, proiezione di forza, cibernetica ed efficienza delle comunicazioni a tutti i livelli) e soprattutto per diminuire la forte dipendenza della deterrenza russa dal suo arsenale nucleare. Il piano prevede che le divisioni in stile sovietico vengano riorganizzate in brigate snellendo gli effettivi e aumentando parimenti il numero dei soldati di professione (pur mantenendo la leva obbligatoria annuale). Il numero degli ufficiali fu tagliato da 350 mila a 150 mila (sebbene successivamente aumentò sino a 220 mila) e soprattutto fu rinvigorito l’afflusso di personale professionista con l’obiettivo finale di 425 mila unità entro il 2017. I sei distretti militari dell’era sovietica furono ridefiniti e ridotti a quatto comandi strategici interforze (Est, Ovest, Centro e Sud) ciascuno dei quali controlla tutti gli assetti militari nella propria area di competenza. Questa riforma rivoluzionaria ha avuto però il pieno impulso solo sotto l’attuale Ministro della Difesa, il Gen. di Armata Sergey Shoygu (in carica dalla fine del 2012), che ha saputo rifinire l’essenza del programma e che ha avuto modo di mettere alla prova il nuovo modello in una serie di operazioni attive di media/bassa entità: la Crimea, il Donbass e la Siria. Secondo il rapporto quindi la potenza militare russa è in crescita ma non ancora a livello di quella dell’era sovietica, dipendente da grandi unità pesantemente equipaggiate, ma si configura come una più piccola, mobile e bilanciata forza che rapidamente sta diventando capace di condurre tutta la gamma di scenari di guerra moderni.
Qual è la politica del Cremlino? Sin dal suo ritorno al potere, Vladimir Putin ha cercato di ridare alla Russia il ruolo di grande potenza sul palcoscenico globale e di ristrutturare l’ordine internazionale che Mosca ritiene essere troppo sbilanciato in favore degli Stati Uniti. Pertanto l’obiettivo è quello di promuovere un mondo multi-polare basato sui principi del rispetto della sovranità degli Stati e della non interferenza negli affari interni, promuovere altresì la primazia delle Nazioni Unite e un attento equilibrio di potere tale da evitare che uno Stato o un gruppo di Stati domini sull’ordine internazionale. Apriamo ora una parentesi che esula dalla trattazione del reportage della DIA. Alla luce di quanto accaduto e sta accadendo in Nord Africa e Medio Oriente tali obiettivi possono anche essere condivisibili ma è chiaro che Mosca gioca abilmente la carta dell’equilibrio di potere tramite l’uso del suo crescente apparato militare in operazioni a bassa intensità (Crimea, Donbass) e soprattutto tramite il soft power per perseguire i propri interessi legati principalmente al rafforzamento della propria economia, ancora troppo legata alle fonti energetiche ed al loro andamento altalenante dei prezzi sui mercati internazionali. Secondariamente Mosca risente molto dell’atavica paura delle invasioni legata alla geografia e morfologia del proprio territorio: il cuore della Russia, ovvero il centro industriale, economico, politico, culturale e demografico, si trova nel bassopiano Sarmatico, quella regione pianeggiante senza barriere naturali compresa quasi totalmente tra i confini occidentali russi e gli Urali. La natura stessa di questa grossa porzione di territorio l’ha da sempre esposta alle invasioni: dai cavalieri teutonici che nel XIII secolo intrapresero quelle che vengono chiamate le “Crociate del Nord” contro Alexsandr Nevskij sino all’Operazione Barbarossa, l’invasione tedesca, nella Seconda Guerra Mondiale. Pertanto la Russia, sin dai tempi degli Zar, per difendere i suoi confini occidentali può fare solo una cosa: cercare di espanderli. Così pensava Caterina II la Grande e così riuscì a fare Stalin al termine di quella che i russi chiamano la “Grande Guerra Patriottica”. I Paesi dell’Europa orientale assoggettati nel Patto di Varsavia fornivano all’Unione Sovietica quegli “stati cuscinetto” che la mettevano al sicuro da possibili invasioni. Con il crollo del socialismo reale e la fine della Guerra Fredda improvvisamente Mosca si ritrovò con dei governi potenzialmente ostili molto più vicini al cuore del suo territorio. Escluse Ucraina e Bielorussia la quasi totalità dei Paesi dell’Est, repubbliche baltiche comprese, sviluppò (a buon diritto) sentimenti che si possono definire “russofobi”, ma in quel particolare momento storico la Federazione Russa era diventata una potenza di second’ordine con delle Forze Armate che versavano in condizioni disastrose, pertanto impossibilitata ad avere alcun tipo di peso politico in campo internazionale. In quest’ottica si capisce come Mosca recentemente, grazie al nuovo impulso dato al comparto militare voluto da Putin, abbia effettuato ingerenze politiche e militari in Ucraina annettendosi de facto la Crimea e sobillando la rivolta in Donbass: il Cremlino non può permettere che Kiev, da sempre strategica economicamente e direttrice principale per le invasioni, finisca sotto l’influenza della Nato, e quindi americana. Di fatto le forze militari russe hanno giocato un ruolo fondamentale (come si legge anche nel rapporto DIA) nell’annessione della Crimea e nella rivolta in Ucraina allontanando così le aspirazioni di Kiev di entrare nell’Alleanza Atlantica e quindi ottenendo un risultato tattico non da poco. Risultato che però sembra solo rimandare a breve termine l’entrata dell’Ucraina nella Nato stante gli ultimi sviluppi in merito, pertanto tale eventualità potrebbe essere ulteriormente destabilizzante per la pace nell’area.
Anche l’intervento armato in Siria ha giocato un ruolo fondamentale nello scacchiere strategico globale: oltre ad aver cambiato radicalmente l’andamento del conflitto rinforzando al-Assad, ha stabilito che una qualsiasi risoluzione dello stesso sia impossibile senza un accordo con Mosca (oltre ad aver trasformato la Turchia da ostile a partner privilegiato al tavolo delle trattative, n.d.a.); risultato non da poco in campo internazionale.
Secondo il rapporto tutte queste azioni si inquadrano in quel profondo senso di insicurezza di Mosca verso gli Stati Uniti che sono ritenuti essere fautori di una politica di indebolimento della Russia non solo in politica estera ma anche in quella interna. Mosca, come si legge, indubbiamente vede gli Usa e i suoi partner della Nato come la minaccia principale alla sua sicurezza, alle sue ambizioni geopolitiche e, cosa ancora più importante, alla continuità del potere del governo. Come affermato dal Russian National Security Strategy (dicembre 2015) gli Stati Uniti e la Nato sono la minaccia principale per la Russia e perseguono una politica deliberata di contenimento contro di essa per sostenere il loro dominio nell’era post Guerra Fredda e quindi privare Mosca del suo diritto di avere un ruolo primario nel palcoscenico globale. In questo documento Mosca cita anche come minaccia essenziale ai propri confini il dispiegamento del sistema antimissile (ABM) in Europa dell’est (Polonia e Romania) e la crescente ricerca nel campo degli armamenti strategici di precisione non nucleari (ad esempio la MOAB recentemente lanciata in Afghanistan proprio come avvertimento per Mosca).
La Russia ha poca fiducia anche negli sforzi americani di promuovere la democrazia nel mondo, che vengono letti come un tentativo di Washington di imporre un singolo set di valori su scala globale. Mosca teme infatti che questa azione minacci le fondamenta del potere del Cremlino dando adito a intromissioni estere negli affari interni della Russia. Pertanto il National Security Stretegy mette in guardia sull’importanza di preservare i valori culturali e spirituali della tradizione russa contro le influenze e le idee occidentali che minano la Russia dall’interno. Il Cremlino quindi, secondo la DIA, sarebbe convinto che gli Stati Uniti stiano gettando le basi per un cambio di regime, convinzione rinforzata da quanto sta succedendo in Ucraina e quanto successo durante le sedicenti “Primavere Arabe”, in Kosovo, Iraq, Libia e durante le “Rivoluzioni colorate” del 2003-05 in Georgia, ancora Ucraina e Kirghizistan.
Per ovviare a questa eventualità il National Security Strategy stabilisce un piano programmatico della durata di sei anni incentrato su otto punti prioritari per rinforzare la difesa del Paese e lo status di potenza globale della Russia, assicurare stabilità politica e sociale, migliorare l’economia. Questi sono: implementare la difesa nazionale, aumentare la sicurezza pubblica e dello Stato, garantire la crescita economica, dare impulso all’educazione tecnologica e scientifica, alla sanità, alla cultura, stabilire un uso razionale delle risorse naturali e salvaguardare l’ecologia dei sistemi viventi, ricercare stabilità strategica e una partnership strategica paritaria.
Si capisce quindi come Mosca ricerchi il rafforzamento delle Forze Armate in funzione di tornare ad essere un giocatore fondamentale su scala globale e soprattutto riacquisire credibilità: il ruolo della forza come fattore di influenzamento delle relazioni internazionali non è in declino per il Cremlino. La nuova strategia russa reitera la vecchia dottrina del 2014 che poneva al centro l’importanza della prevenzione di un conflitto, la deterrenza nucleare e convenzionale ed il bisogno di migliorare i processi di mobilitazione delle Forze Armate russe.
La Russia quindi, secondo gli Stati Uniti, sarebbe più sicura di sé riguardo alla capacità di difendere la propria sovranità, di resistere alle pressioni dell’occidente e di contribuire alla risoluzione dei conflitti all’estero. Pertanto è tornata ad essere una minaccia per gli Stati Uniti facendo fare un salto indietro di 30 anni alla politica internazionale di Washington.
Leave a Reply
You must be logged in to post a comment.