From Iran to Disagreements over North Korea: Rex Tillerson’s Fall

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Dall’Iran ai litigi sulla Corea della Nord, così è caduto Rex Tillerson

L’analisi: dopo tanti conflitti e incomprensioni tra i due, alla fine Trump lo ha rimosso dall’incarico. L’ex segretario di Stato, sin dal primo giorno, è stato come un pesce fuor d’acqua nell’amministrazione. Incapace di conquistarsi la fiducia del presidente e di influenzarne la politica estera

La goccia finale è stato l’Iran, almeno a sentire Donald Trump. Il presidente spiega la cacciata del suo segretario di Stato così: “Mi stava simpatico ma su alcune cose non andavamo d’accordo. Io penso che l’intesa sul nucleare con l’Iran sia terribile, a lui andava bene. Io voglio cancellarla o rifarla, lui aveva idee diverse”. Di certo una divergenza sull’Iran è importante, ma in realtà è solo uno dei tanti conflitti tra il presidente degli Stati Uniti e il “presunto” capo della sua diplomazia. Tillerson non ha mai veramente trovato il suo ruolo, dal primo giorno è stato come un pesce fuor d’acqua. Incapace di conquistarsi la fiducia del presidente, tantomeno di influenzarne la politica estera. Altrettanto incapace di assumere le redini del Dipartimento di Stato, dove continua il fuggi fuggi, lo stillicidio delle dimissioni, e molti incarichi cruciali sono scoperti da mesi.

Tra lui e Trump gli scontri sono stati così frequenti da non fare quasi più notizia. Erano sempre dello stesso tenore: laddove Tillerson proponeva una linea più moderata, tradizionalista, in continuità con l’ortodossia dei suoi predecessori (repubblicani o perfino democratici), Trump lo sconfessava brutalmente con degli strappi continui. Sul ruolo della Nato o sui rapporti con Vladimir Putin, per esempio, Tillerson ha cercato di rassicurare fin dall’inizio gli alleati storici, mentre Trump li spaventava con i suoi attacchi e la minaccia di non difendere paesi che non spendono abbastanza per il bilancio militare. Sul Medio Oriente o sulla Corea, Tillerson ha tentato di salvare qualcosa della politica estera obamiana mentre Trump la demoliva con la forza di una ruspa. Sulla Corea alla fine Trump gli ha dato implicitamente ragione accettando l’incontro con Kim, però si è ben guardato di dare atto che Tillerson era stato il fautore del dialogo; inoltre il presidente si è buttato a capofitto nell’accettare l’invito nordcoreano senza minimamente consultare i diplomatici esperti dell’area.

Paradossalmente, anche se Tillerson è un petroliere (ha fatto tutta la sua carriera come top manager della Exxon) perfino sugli accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico, il segretario di Stato avrebbe avuto una posizione meno negazionista e più conciliante del suo capo. Poi c’è stato l’incidente forse fatale, la fuga di notizie che deve avere compromesso irrimediabilmente i rapporti tra i due. Fu in occasione di un vertice al massimo livello alla Casa Bianca, dove insieme al presidente e al segretario di Stato c’erano pure i dirigenti militari. Quando Trump se n’è andato, Tillerson lo avrebbe definito un “moron”, deficiente. Giudizi abbastanza simili sono poi riaffiorati anche nel libro di Michael Wolffe, “Fuoco e furia”. Tillerson è un top manager abituato a studiare i dossier. Di certo lo irrita, lo indispone, lo esaspera dover ubbidire a un presidente che si rifiuta di leggere anche un rapporto di due pagine dell’intelligence. Ma prima ancora che fosse lui a gettare la spugna, è stato Trump a disfarsene. Per sostituirlo con un fedelissimo, quel Mike Pompeo che era stato messo alla testa della Cia per “normalizzarla”. Senza riuscirci neanche tanto, per la verità. Chissà se ci riuscirà coi diplomatici. Quelli che restano.

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