Midterm Elections: How Trump’s Foreign Policy Will Change

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«È ufficiale», diceva prima delle elezioni Wesleyan Media Project, uno dei più credibili centri di ricerca americani: «Midterm 2018 è tutto sul sistema sanitario», l’Affordable Care Act, meglio noto come Obamacare che Donald Trump vorrebbe eliminare dalla faccia degli Stati Uniti. Wesleyan avevano ragione: il dibattito pre-elettorale e tutte le analisi del dopo-voto concordano che la maggioranza degli elettori era interessata al destino di Obamacare. Colpisce invece che prima e dopo il voto, la politica estera e commerciale americane, estremamente influenzate dai primi due anni di presidenza Trump, fossero così assenti.

Nella prima conferenza stampa presidenziale dopo il voto, sono passati 45 minuti prima che un giornalista – giapponese – ponesse una domanda di natura internazionale.

È normale che alle midterm i temi locali dominino l’agorà politica. Dalla fine della Guerra Fredda, non è sulle questioni strategiche che un candidato conta di vincere. Nel 1992 George Bush, il 41° presidente che aveva liberato il Kuwait e sconfitto Saddam Hussein, che aveva governato la riunificazione tedesca e la fine dell’Urss, senza che scoppiasse la Terza guerra mondiale, fu sconfitto da Clinton sull’economia.

Ma il mondo di oggi non è così distante dagli anni della Guerra fredda. Ne stiamo vivendo una seconda più caotica con molti protagonisti: c’è la Cina, il Giappone con le sue tentazioni nucleari, i numerosi e rissosi attori mediorientali, gli europei sempre più lontani dall’essere un porto sicuro per la democrazia e l’Alleanza atlantica. I comportamenti di Donald Trump che usa la forza militare, le sanzioni economiche e le barriere doganali senza una visione d’insieme, rendono più incerto il nostro futuro.

Sono così pochi che non è difficile immaginare quali leader mondiali nella notte elettorale si augurassero il successo elettorale di Trump: Vladimir Putin, il principe ereditario saudita e l’israeliano Bibi Netanyahu. Per ragioni diverse, ognuno dei tre aveva la necessità di avere quel presidente americano saldamente al potere a Washington.

Per tutti gli altri che preferirebbero un presidente più internazionalista, più attento agli accordi sul clima e meno incline alle guerre commerciali, è stata una serata di moderata soddisfazione. Qualche settimana prima di midterm un sondaggio del Pew Research Center di Washington, rilevava un crollo dell’immagine americana a partire dal 2016, l’anno dell’insediamento di Trump. Fra gli intervistati nei 25 paesi del sondaggio, il 70% non aveva nessuna fiducia nel presidente. Il distacco era ancora più evidente fra i principali alleati degli Stati Uniti: solo il 25% dei canadesi, il 10 dei tedeschi e il 9 dei francesi mostrava simpatia per Trump.

Ma ovunque un’opinione positiva verso gli Stati Uniti e i valori che rappresenta, restava al di sopra del 50%. Perché se la geo-politica e la geo-economia ci dicono che siamo in marcia verso un mondo multipolare spartito con russi e cinesi (soprattutto con questi ultimi), quando interpellata, la maggioranza degli europei continua a vedere il futuro accanto agli Stati Uniti.

Con le stesse preoccupazioni degli americani per i loro affari interni, per lo stato del mondo la comunità internazionale si chiede quale presidente ci abbia restituito midterm: un leader più moderato dopo la sconfitta alla Camera dei rappresentanti? Più attento alla diplomazia, alle alleanze date e al dialogo con i concorrenti? I toni della conferenza stampa di mercoledì mattina suggeriscono di no: nei due anni di convivenza con Donald Trump che come minimo ci aspettano, i toni non cambieranno nello scontro interno con una Camera democratica, come sulla scena internazionale.

La sua imminente visita in Francia per i 100 anni dalla fine dal massacro della Prima guerra mondiale, ci darà un primo assaggio se fra prima e dopo midterm non ci saranno differenze. A Parigi il presidente incontrerà alleati, qualche potenziale nemico e Vladimir Putin che al momento non è un alleato e nemmeno un avversario di Trump.

«Quando guardate agli Stati Uniti dovete andare oltre il presidente, dovete guardare al Congresso» , dice Ian Brzezinsky, esperto di questioni strategiche di Atlantic Council e figlio del Consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter. In questo caso il risultato di midterm sarebbe positivo. La Camera dei rappresentanti è ora molto più distante dalle ragioni per cui Netanyahu, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e Vladimir Putin si auguravano una vittoria repubblicana: la maggioranza democratica è contraria a cancellare l’accordo sul nucleare iraniano, a permettere al giovane principe saudita di mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente, a indagare fino a quale punto la Russia abbia mestato alle presidenziali del 2016. E vuole affrontare la questione dello squilibrio commerciale americano senza imporre dazi al mondo.

Come accade a ogni elezione di medio termine, il presidente di solito perde il controllo di almeno una camera e impara la lezione, bilanciando i comportamenti.

Farà così anche Trump o, colpito nel suo orgoglio, sullo scenario internazionale si comporterà come una belva ferita? Negli ultimi giorni di campagna, quando i consiglieri lo imploravano di ignorare la questione migranti e parlare di crescita economica, Donald Trump aveva continuato a raccontare falsità sui primi. Perché parlare di economia era “noioso”. Un comportamento curioso per un presidente-uomo d’affari, che spiegava la sua vocazione per i temi negativi e divisivi sui positivi. E’ con questa natura che amici e avversari dovranno fare i conti nei prossimi due anni. Dove sarà possibile posporre decisioni e accordi fino alle prossime presidenziali, nessuno vorrà investire né rischiare più del necessario con l’America di Donald Trump.

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