Era inevitabile? Defezioni e spaccature: le lezioni della Marcia delle donne
Che la Marcia delle Donne su Washington stesse implodendo era diventato chiaro, paradossalmente, proprio all’indomani delle elezioni di novembre che hanno portato un numero record di deputate al Congresso. Ma era inevitabile?
La sinistra americana considera questa manifestazione, che nel 2017 coinvolse fra i 3 e i 5 milioni di persone, l’inizio della reazione dell’elettorato femminile alla presidenza di Donald Trump e di una nuova ondata di mobilitazione politica. Però la terza Marcia annuale, ieri, è stata segnata dalle defezioni di diverse candidate alle presidenziali del 2020, di comitati locali (niente eventi a Chicago; due, separati, a New York) e dal ritiro come sponsor del Comitato nazionale democratico.
La ragione principale è stata l’accusa a una delle leader, Tamika Mallory, di non aver preso le distanze in modo netto dalle posizioni antisemite di Louis Farrakhan, capo del movimento afroamericano Nation of Islam. Una fondatrice ha esteso lo stesso rimprovero a un’altra leader, la palestinese-americana Linda Sarsour, critica sulle politiche israeliane. E poi una contea in California si è ritirata perché le leader locali erano tutte bianche. Persino il simbolo, il cappellino rosa, è oggetto di polemica.
La crisi della Marcia, come le spaccature in altri movimenti nonviolenti, fa riflettere sull’insita fragilità delle proteste nate spontaneamente sul web. Forse era inevitabile — scrive sul New York Times Michelle Goldberg, premio Pulitzer per articoli sulle molestie sul lavoro — che fosse «un momento anziché un movimento». Voleva rappresentare la diversità «intersezionale» delle donne, ma sono mancati il dialogo, i rapporti umani e i compromessi cruciali per stabilire leader e obiettivi riconosciuti.
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