Dietro il Salvator Mundi di Leonardo
le relazioni tra Trump e sauditi?
Opera sparita, di cui non si sa più nulla. Eppure è quella costata di più nella storia, battuta all’asta per una cifra record di 450.3 milioni di dollari, numeri da capogiro e che a stento si riesce anche ad immaginare. Il riferimento è al Salvator Mundi, il quadro di Leonardo Da Vinci che nel novembre 2017 viene messo all’asta per 120 milioni di Dollari. Alla fine, nell’asta di Christie’s a New York, il 16 novembre 2017 viene aggiudicato per la cifra sopra descritta. Inizia subito la caccia al nuovo possessore: il New York Times lo identifica in Bader bin Abdullah bin Mohammed bin Farhan al-Saud. Il cognome non lascia spazio a dubbi: è un membro della famiglia reale saudita, uno dei principi più vicini a Mohammad bin Salman, il principe ereditario saudita. Ma oggi nessuno a Riad sa dove sia il quadro.
Quei sospetti sulla cifra così alta
L’opera in realtà non varrebbe tutta quella cifra. Ci sono due ordini di problemi non indifferenti: da un lato la paternità dell’opera è tutta da accertare. Dall’altro, il quadro ammirato e costato così tanto è quasi un falso storico, nel senso che l’opera di restauro subita negli anni lo rende totalmente diverso dall’originale. In poche parole, la tela che sarebbe stata dipinta direttamente da Leonardo non c’è più. Dunque, partire già da una quotazione così alta desta non poche perplessità. Arrivare alla vendita record da 450 milioni di Dollari poi, fa sorgere veri e propri sospetti. Se l’acquirente viene scovato poco dopo nella persona del giovane rampollo amico del principe saudita, colui che rilancia continuamente permettendo di far lievitare così tanto il prezzo viene scoperto in seguito. È il Daily Mail a rilanciare il suo nome: Mohammed Bin Zayed, il principe ereditario di Abu Dhabi. Due casate, quella dei Saud e quella degli Emirati Arabi Uniti, che non sono proprio rivali.
Viene estremamente difficile immaginare che tra Riad ed Abu Dhabi si apra un derby del genere per un’opera, con rilanci vertiginosi. I due governi sono alleati nella penisola arabica, condividono comuni obiettivi e comuni politiche. Per di più, i due principi sono legati da amicizia personale. Il sospetto quindi è che chi compra e chi rilancia siano d’accordo. Serve evidentemente gonfiare il prezzo di quell’opera. Vien da chiedersi il motivo.
L’indagine giornalistica di un blog israeliano
Ed alla domanda provano a rispondere il producer televisivo israeliano Zev Shalev e la giornalista Tracie McElroy. La loro inchiesta viene pubblicata su Narativ, il blog gestito da Shalev. Una parte fondamentale della loro ricostruzione, è riferibile ad un incontro tenuto presso la Trump Tower nel giugno 2016. Donald Trump si appresta a diventare il candidato repubblicano alla Casa Bianca, la sua campagna elettorale appare in ascesa. In quell’occasione, in una stanza del grattacielo del tycoon siedono tre personaggi: un esperto israeliano nella manipolazione dei social media, un emissario rappresentante dei principi Mohammad Bin Salman e Mohammed Bin Nayef ed un sostenitore repubblicano. Ovviamente l’incontro è stato con lo stesso Donald Trump. Shalev e McElroy risalgono ai nomi dei partecipanti: l’esperto israeliano è Joel Zamel, fondatore di Psy Group, il donatore repubblicano è Erik Prince, fondatore della compagnia militare privata Blackwater. Nella riunione emerge l’intenzione dei principi sauditi ed emiratini di aiutare Trump. E lo farebbero spingendo nella gestione della campagna elettorale la stessa Psy Group, che si occupa dell’aspetto della gestione delle notizie da far circolare sui social network.
La Psy Group avrebbe quindi lavorato fornendo dati alla Cambridge Analytica, la società finita poi nell’occhio del ciclone per i dati di molti utenti avuti tramite Facebook. Da ricordare infatti che la Cambridge Analytica, il cui fondatore è anche uno dei proprietari di Breitbart News (diretta allora da Steve Bannon) è partner informatico del comitato elettorale di Trump. Ma, come sottolineato da questo articolo di Alessandro Massone, Cambridge Analytica non ha una filiera propria di produzione e per la diffusione dunque delle notizie che interessano la campagna elettorale si deve servire di Psy Group. Il lavoro della società israeliana, scrivono su Narativ, apparentemente è gratis. Appare palese però che il suo supporto deve essere pagato. Ed è qui dunque che entra in gioco l’asta del Salvator Mundi.
A vendere il quadro è Dmitry Rybolovlev, oligarca russo famoso in Europa per possedere gran parte delle azioni della società calcistica del Monaco. A sua volta, Rybolovlev acquista l’opera per 126 milioni nel 2013. Ma fa causa a chi gliel’ha venduta: scopre infatti che il quadre vale molto di meno. E qui risiede un’altra ambiguità: com’è mai possibile che un’opera giudicata sovrastimata dopo pochi anni viene venduta ad un prezzo praticamente triplo? Dmitry Rybolovlev è un nome che emerge nel famigerato Russiagate, l’inchiesta del procuratore Mueller contro le presunte (e mai dimostrate, al momento) ingerenze del Cremlino nelle elezioni Usa del 2016. Questo perché l’oligarca russo si ritroverebbe in almeno due occasioni con il comitato elettorale di Trump, anche se non ci sono prove di un incontro personale con il futuro presidente Usa. Di certo c’è che Dmitry Rybolovlev acquista per 95 milioni di Dollari da Trump una delle sue ville in Florida nel 2008, altro segno del fatto che i due si conoscono. In realtà su Narativ il Russiagate viene soltanto sfiorato: per i due autori dell’inchiesta, ciò che preme sottolineare è che un quadro venduto da un conoscente di Trump, viene piazzato all’asta ad un prezzo molto gonfiato in un’asta dove Saud e Nayef sembrano essere d’accordo.
E quella cifra servirebbe a nascondere il pagamento dei sauditi verso la Psy Group. Un altro indizio che viene preso dai due autori dell’inchiesta di Narativ come “decisivo” per supportare questa tesi, è il fatto che i conti della Psy Group in quel momento sono depositati presso la Banca di Cipro. Di quella banca Dmitry Rybolovlev possiede importanti quote. Dunque, la situazione è la seguente: un’opera viene venduta da un oligarca russo che conosce Donald Trump, tale opera all’asta è aggiudicata per una cifra spropositata per il suo valore. L’acquirente è un principe saudita, colui che rilancia fa parte della casata amica di Abu Dhabi. Sia Riad che Abu Dhabi mandano nel giugno 2016 emissari in una riunione a cui partecipa anche il fondatore di Psy Group, nella quale si esprime la volontà di appoggiare Trump. Pochi mesi dopo, si ha quindi l’acquisto dell’opera “pilotato” da sauditi ed emiratini e colui che vende ha parte delle quote della banca dove sono depositati i conti di Psy Group. Un intreccio che, anche se non fornisce elementi certi, secondo gli autori di Narativ mostra comunque un certo “fermento” lungo l’asse che ha nel Salvator Mundi un perno importante. Ed oggi poi, come detto ad inizio articolo, di quel quadro non si sa più nulla. Altro mistero, che confermerebbe l’ipotesi di un’asta volta a mascherare imponenti passaggi di denaro.
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