È una guerra sui generis quella che stanno combattendo in queste settimane Stati Uniti e Cina. Anziché ricorrere a missili e cannoni, le due superpotenze hanno imbracciato l’arma della propaganda informativa. Sia chiaro, niente di nuovo sotto il sole. Gli attori più importanti che si sono succeduti nello scacchiere globale hanno sempre cercato di controllare la narrazione fattuale di un determinato periodo storico spargendo ai quattro venti idee e informazioni specifiche. Quando si è visto che la propaganda funzionava più delle pallottole, molti governi hanno creato apposite strutture incaricate di pianificare l’utilizzo di tecniche di persuasione per raggiungere obiettivi specifici. Obiettivi destinati, a loro volta, a portare beneficio a coloro che organizzavano l’intero processo.
La guerra di propaganda non si combatte più a son di volantini e manifesti, giornali di partito e case editrici. Oggi il campo di battaglia si è spostato sulla rete e, più precisamente, sui social network. Da Facebook a Twitter, da TikTok a WeChat: ecco le nuove praterie che le superpotenze si contendono in un braccio di ferro senza esclusioni di colpi. La posta in palio è altissima. Già, perché conquistare questi spazi consente agli attori globali di persuadere gli utenti, di portarli dalla propria parte, di mobilitare l’opinione pubblica contro l’avversario, di migliorare la propria immagine internazionale e, aspetto più importante di quelli elencati, di rafforzare il proprio potere.
Il trucco per avere successo è convincere gli altri ad adottare i propri obiettivi attirando la platea mediante una serie di risorse intangibili, quali la cultura e i valori. Arriviamo così al concetto di soft power teorizzato da Joseph Nye. Lo stesso concetto che trova ampio spazio all’interno della guerra di propaganda in corso tra Stati Uniti e Cina.
Gli artigli del Dragone
Partiamo dal Dragone e dagli strumenti schierati da Xi Jinping per rispondere, colpo su colpo, agli attacchi provenienti da Washington. Come sottolinea Foreign Policy, dal 2009 a oggi la Cina ha speso almeno 6,6 miliardi di dollari per promuovere la propria visione del mondo oltre la Muraglia. L’ingente quantità di denaro è stata dirottata in vari prodotti editoriali, in inglese ma anche in altre lingue. La linea guida del modus operandi di Pechino rispecchia in pieno quanto dichiarato nel 2016 dal presidente Xi: ”I tentacoli della propaganda devono estendersi ovunque vi siano lettori e telespettatori”.
Prima di scendere nel dettaglio è tuttavia doveroso soffermarsi sul concetto di propaganda. Da un punto di vista lessicale, questo termine ha oggi assunto in Occidente un significato negativo, accostato alla volontà, da parte di un soggetto, di veicolare informazioni fuorvianti. In Cina la propaganda presuppone l’uso della comunicazione per trasmettere un determinato messaggio o un’idea che rispecchino la visione del governo.
Tornando agli strumenti su cui può contare Pechino, al netto dei quotidiani stampati in lingua inglese, vale la pena guardare ai canali televisivi e radiofonici. Una delle mosse più rilevanti della Cina per accrescere il peso informativo della propria visione del mondo è stata quella di combinare il China Global Television Network con China Radio International e China National Radio. Le tre ”teste” sono confluite in Voice of China.
Calcolatrice alla mano, i media cinesi trasmettono in almeno 140 Paesi e 65 lingue differenti e contano una forte presenza anche sui social network e piattaforme occidentali, da Facebook a Youtube passando per Twitter. Recentemente il New York Times ha fatto luce sul caso Cgtn negli Stati Uniti. Il canale in questione è controllato dalla Cctv, cioè dall’emittente di Stato cinese che ha sede a Pechino. Trasmette in inglese e, secondo alcune stime, i suoi programmi raggiungono le case di 30 milioni di famiglie americane. Bene: Washington si è lamentato del fatto che la Cgtn fosse in grado di influenzare l’opinione pubblica Usa proponendo un’errata rappresentazione della Cina.
Tra soft power e propaganda
Inevitabile concentrarsi sulla pandemia di Covid-19. Gli Stati Uniti puntano il dito contro la Cina e accusano Pechino di essere l’unico responsabile del disastro sanitario ed economico scoppiato nel mondo intero. Le colpe imputate dagli Usa al Partito comunista cinese sono molteplici: aver nascosto l’epidemia nella fase iniziale, aver nascosto la vera origine del virus (il Washington Post parla di una possibile fuoriuscita dell’agente patogeno da un laboratorio) aver silenziato medici pronti a lanciare l’allarme, aver comunicato in ritardo l’esistenza di un’epidemia gravissima e, per ultimo, aver insabbiato il reale numero dei pazienti morti e contagiati.
Le supposizioni della Casa Bianca – al momento si tratta infatti di ipotesi, non ancora confermate dai fatti – hanno spinto la Cina a rispondere per le rime. Attraverso le sue agenzie e i suoi giornali, il gigante asiatico ha più volte rigettato le accuse, giudicando irresponsabile e fuori luogo il processo inscenato da Washington. Zhao Lijian, portavoce e vicedirettore del dipartimento dell’informazione del ministero degli Esteri cinese, è partito da un’audizione di Robert Redfield presso la Camera dei Rappresentanti Usa per incolpare gli Stati Uniti.
”Redfield (direttore del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie ndr) ha ammesso che alcuni americani apparentemente morti di influenza sono poi risultati positivi al nuovo coronavirus – ha twittato Zhao – Quando è iniziato tutto con il paziente zero negli Usa? Quante persone sono state contagiate? E quali sono gli ospedali? È possibile che sia stato l’esercito americano a portare l’epidemia a Wuhan. Cercate di essere trasparenti! Diffondete pubblicamente i vostri dati! Gli Usa ci devono una spiegazione”.
L’accusa americana, insomma, è stata capovolta.
Prima che i media americani tornassero alla carica, la Cina era stata in grado di farsi apprezzare da numerosi Paesi. In che modo? Facendosi vedere pronta ad aiutare gli ”amici” e fornendo supporto medico alle nazioni sopraffatte dal Covid-19. Le immagini di cargo provenienti dall’estremo oriente colmi di mascherine, respiratori polmonari e medici hanno spinto gran parte della popolazione mondiale a sospendere il giudizio negativo sulla presunta negligenza di Pechino. Adesso le inchieste americane rischiano di interrompere la narrazione cinese. E il Dragone potrebbe lanciarsi in una nuova controffensiva.
Gli Stati Uniti e la propaganda anti-cinese sul nuovo coronavirus
Gli Stati Uniti sembrano intenzionati a chiedere il conto alla Cina. In realtà, i segnali provenienti da Washington sono un po’ discordanti. Nel corso delle fasi iniziali del quadro pandemico, Trump ha dichiarato pubblicamente di apprezzare il lavoro svolto da Xi Jinping in relazione alle misure messe in campo dalla Repubblica popolare cinese per evitare il diffondersi globale dei contagi.
Il presidente degli Stati Uniti, in queste settimane, ha anche telefonato al leader cinese. Il fine è quello di collaborare. Ma è dall’inizio di questa storia che negli States viene ventilata l’ipotesi secondo cui le responsabilità per il Covid-19, anche prescindendo dal “come” abbia avuto origine il nuovo coronavirus, siano da attribuire soltanto alla Cina. Sembra una tavola apparecchiata per una nuova “guerra fredda”. Ma le variabili sono molte. E risulta inutile esibirsi in previsioni abbastanza inutili.
“Propaganda” – come premesso – è un concetto interpretabile in vari modi. Gli Usa, fino a prova contraria, sono alla ricerca della verità sul Covid-19. Sempre che la versione di Pechino presenti delle falle, come qualcuno dalle parti di Washington sospetta. In politologia, viene spesso usato un concetto: la “negatività”. Ecco, basta un rapido sguardo ai commenti che i cittadini americani pubblicano sui loro profili dei social network per comprendere come, almeno una fascia degli statunitensi, sia convinta che la Cina non la racconti giusta. Può essere una fetta di popolazione molto marginale o no. Ora come ora non è facile intuirlo. Di certo c’è che le cronache ospitano volentieri notizie non troppo positive sulla presunta mancanza di trasparenza cinese. Si tratta dell’inflazione del concetto di “negatività”. Il professor Thomas Patterson, che insegna ad Harvard, ha spiegato bene l’entità di questo fenomeno, quando ha scritto di “negativity” in relazione alle elezioni americane del 2016.
Capiamoci: persino Joe Biden, il candidato dei Democratici alla Casa Bianca, ha rimproverato Trump nel suo ultimo spot elettorale per la poca chiarezza attorno all’atteggiamento assunto nei confronti della Cina. La critica parte da un assunto banale: il tycoon sulla Cina ha espresso una serie di opinioni contrastanti. E per Biden Trump sta gestendo questa situazione attraverso una confusione non accettabile. Questa sì che è propaganda elettorale. Ma questa è un’altra storia.
Partiamo da un dato banale: Donald Trump non lo chiama “Covid-19”. Almeno non sempre. Il termine che il leader del Gop ha scelto per identificare il nuovo coronavirus è “chinese virus“. E il Commander in Chief ha anche argomentato sul perché alla stampa, spiegando di usare “chinese virus” perché, banalmente, il virus che sta sconvolgendo il mondo proviene dalla Cina. Ma questo modo di fare può avere delle conseguenze sul piano geopolitico.
Tutta la narrativa propagandistica Usa ruota attorno al laboratorio di Wuhan
I media statunitensi non hanno bisogno di troppe presentazioni. Negli ultimi giorni, però, alcune delle principali testate statunitensi, siano esse giornalistiche o televisive, si stanno allineando: dalla Cnn a Fox News, passando per il Washington Post, la domanda posta, più o meno, è sempre la stessa.
Per quanto il quesito riguardi pure un serie di eventualità: il laboratorio di Wuhan, quello poco distante dal wet-market in cui sarebbe stata originata la pandemia, ha sempre rispettato le misure di sicurezza? Perché qualcuno, anche un il premio Nobel francese Luc Montanger, presume che il virus sia fuoriuscito per via di un errore? E quindi: esiste la possibilità che gli scienziati cinesi abbiano sbagliato qualcosa, mentre studiavano i coronavirus? Qualcuno, in specie tra i battitori liberi, arriva ad ipotizzare che qualche ricercatore di Wuhan possa essere stato contagiato per primo.
Non è ancora sufficiente. C’è un ulteriore campo minato: negli States si stanno chiedendo se la Cina abbia avvertito per tempo sui rischi derivanti dal Covid-19. E in questa storia ha un ruolo anche l’Organizzazione mondiale della Sanità, cui Donald Trump ha deciso di tagliare i fondi. Forse l’origine del Covid-19 non verrà mai chiarita. E il motivo è presto detto: una volta chiarita la naturalezza del genoma, è sempre possibile sostenere che gli scienziati possano aver mischiato più patogeni naturali. Qualcuno usa spiegarlo usando l’esempio delle mele: mischiando due qualità di mele, si ottiene un prodotto naturale, ma comunque manipolato.
Ma ora non ci stiamo occupando di questi aspetti, bensì di come gli Stati Uniti abbiano reagito, dal punto di vista propagandistico, all’ipotesi che il Covid-19 sia sì stato trasmesso da un pipistrello ad un animale serbatoio, per poi passare all’uomo, ma magari in maniera non del tutto naturale. E il fatto che Trump abbia dichiarato che gli Stati Uniti reagiranno nel caso in cui la Cina avesse celato qualche particolare rilevante non costituisce un fattore da non considerare.
Quella americana è solo propaganda? Praticamente impossibile da definire. Bisogna che il tempo faccia il suo corso. Quello che oggi è noto riguarda una indagine che il segretario di Stato Mike Pompeo ha annunciato. Anche Trump ha fatto presente come gli Stati Uniti stiano lavorando per comprendere qualcosa di più. Comunque siano andate le cose, vale la pena sottolineare come gli Stati Uniti, soprattutto i trumpisti e la parte repubblicana, stiano seminando per avere materiale in vista delle elezioni di novembre: accusare la Cina di essere l’unica responsabile della pandemia potrebbe servire a Trump. I Democratici, se non altro, hanno rapporti più stretti con il “dragone”. Biden avrà qualche difficoltà a colpevolizzare la Cina per il Covid-19. Trump no.
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