America sul precipizio
Usa. La pandemia mette a nudo lo scontro fondamentale fra le anime originarie e antagoniste della nazione: espressione politica dell’illuminismo ma anche nazione fondata da profughi adepti di religiosità fondamentalista da cui discendono una pervasiva mitopoietica biblica, il suprematismo e l’eccezionalismo
Deve ancora essere scritta – ma sarà affascinante leggere – la storia ecologica di questa decrescita forzata. Una brusca frenata delle attività – umane, commerciali, industriali – che certo produrranno, stanno già producendo, effetti che non avrebbero ottenuto anni di mobilitazione ambientalista. L’impensabile crollo dei consumi di idrocarburi, per esempio, testimoniato dalle petroliere che incrociano i mari senza meta strapiene di greggio che strabuzza da ogni deposito, inusato e invendibile. Monumenti all’impossibilità della macchina di arrestarsi.
Una frugalità coatta certo, un blocco totale senza vero criterio ma un esperimento nondimeno, uno spiraglio forse, sugli effetti anche di un ipotetico nuovo modello di sviluppo? Per ora ci sono i cieli limpidi nelle metropoli tornate pedonali con le auto ferme, il silenzio irreale e il vuoto lasciato dalla frenesia in pausa forzata. La calma, forse, prima della tempesta. Perché ovviamente le ripercussioni ci saranno e a cascata. E quando si inceppa il mono-sistema del capitalismo finanziario, la sofferenza ricade puntualmente sui deboli, inermi e vulnerabili. Quando grandi settori di quel sistema collassarono 12 anni fa, sotto il peso della mega speculazione dei mutui spazzatura, si manifestò per primo nelle periferie estreme degli hinterland californiani e nelle exurbie del Nevada. Qui era stata venduta a credito una versione discount dell’american dream ad una classe subalterna di “working poor,” produttori/consumatori eufemisticamente classificati come middle-class che di classe media avevano solo la direttiva al consumo. A loro per comprare la mono famigliare prototipica erano stati elargiti prestiti insostenibili che avevano arricchito investitori di Wall Street. Vennero subito travolti dal crack mentre i fondi di investimento venivano salvati.
Noi giornalisti visitavamo allora i filari di case abbandonate, pignorate dalle banche che non potevano più spremere i poveri abitanti cui avevano imposto crediti impossibili. Non sapevamo ancora che gli effetti si sarebbero ripercossi per dieci anni ancora su economie lontane – la Grecia, l’Italia –sui vassalli mediterranei dell’ordine bancario. E quel collasso era una bazzecola rispetto a quello che accade oggi.
Vedendo oggi le migliaia di cantieri di immobili ancora all’opera in una città come Los Angeles, si percepisce il fiume di credito che ne ha finanziati a decine di migliaia nelle città americane in boom da 10 anni. Prestiti predicati su vendite e affitti destinati a non arrivare mai. E quanti dei milioni di ristoranti chiusi, oltre a non riuscire più a riaprire, si troveranno schiacciati sotto i debiti contratti? E questo è solo l’indebitamento delle imprese. Un’altra voragine è quella dei lavoratori salariati, freelance, precari, clandestini, lumpen-digitali del “gig”, forzati del debito anche loro in un ingranaggio che pompa credito per stimolare il consumo e la mitica crescita perpetua. Il debito totale sulle carte di credito degli Americani ammonta a $1 trilione, quello dei prestiti studenteschi a $1,6 trilioni. Poi cambiali auto, mutui…per un totale di $13,86 trilioni che un numero imprecisato ma mastodontico non riuscirà a ripagare. Viene a mente l’immagine di Willy il Coyote che pedala furiosamente sul vuoto, oltre il ciglio del dirupo prima dell’inevitabile epilogo.
E anche stavolta difficilmente saranno i bankster amici della cleptocrazia istallatasi alla Casa Bianca a farne le spese. Loro continuano a promuovere la retorica del diritto al debito e al consumo come massima espressione di “libertà”, della “qualità di vita” come irrinunciabile cardine del “american way of life.” Il vangelo secondo il liberismo e i suoi dogmi: proprietà privata, individualismo, “benessere” (anche se il boom di cui sopra ha prodotto una disuguaglianza abissale). Ora il popolo del “libero consumo” presidia i palazzi di governo reclamando la riapertura nel nome di Dio e degli Stati Uniti. Brandiscono minacciosi i fucili e gridano al complotto liberal e non sorprende che siano finanziati dalla rete di estrema destra che fa capo a petrolieri come i Koch – dal punto di vista del capitale la sospensione del lavoro e del consumo è un atto radicale e intollerabile.
Non bastano però le geremiadi contro il virus cinese o comunista per costringere la pandemia dentro a un conflitto ideologico artefatto. La strumentalizzazione del rancore (compreso quello contro la scienza) per offuscare le disfunzioni sistemiche rischia di infrangersi contro la realtà impietosa del contagio. L’integralismo individualista delle libertà personali e del darwinismo sociale si rivela quotidianamente incapace di far fronte a una crisi che richiede azioni collettive, solidarietà e competenza. L’ex superpotenza scientifica diventa focolaio mondiale e zimbello del mondo per le flebo alla varichina. La pandemia mette così a nudo lo scontro fondamentale fra le anime originarie e antagoniste della nazione: espressione politica dell’illuminismo ma anche nazione fondata da profughi adepti di religiosità fondamentalista da cui discendono una pervasiva mitopoietica biblica, il suprematismo e l’eccezionalismo.
Vuol dire che dopo 50 anni di deriva liberista le contraddizioni del virus provocheranno un ritorno automatico alla concezione sociale rooseveltiana? Anche questo è ancora da scrivere, ma si può sperare che lo stop obbligato funga anche da pausa di riflessione sul modello stremato dell’espansione perpetua e favorisca il riequilibrio del raziocinio rispetto al culto dell’ignoranza promosso strumentalmente dall’oligarchia rapace impadronitasi del paese. Nella consapevolezza che la congiunzione di Trump, virus, elezioni e depressione economica promette di essere una convulsione storica per l’America e per il mondo.
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