Why Italians (and Not Just Italians) Prefer China over the United States

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Mentre infuria la pandemia, nel mondo si combattono due forme diverse di capitalismo. È presto per dire chi vincerà ma una cosa è certa: il faro del liberalismo atlantico è irrimediabilmente spento

Elisabeth Vallet dell’Università del Quebec ha calcolato, nel libro “Borders, Fences and Walls”, che quasi un terzo delle nazioni del mondo ha installato vari tipi di barriere, muri o recinti lungo i propri confini. Trent’anni fa, al momento del crollo del muro di Berlino, la terza ondata democratica aveva ridotto a sedici il numero delle recinzioni di confine sull’intero pianeta. Quando la globalizzazione cominciò a gironzolare per il mondo non ebbe così il problema di dover abbattere i confini: erano venuti giù quasi tutti.

Nonostante il suo simbolo più noto sia un muro di cinta di oltre 21 mila chilometri, uno dei sedici sopravvissuti quando crollarono i 155 chilometri di cemento e filo spinato che dividevano Berlino, la Cina è la nazione che più si è giovata di quanto accaduto negli ultimi trent’anni. Nessuno tra i grandi player globali ha conosciuto ritmi di crescita economica paragonabili a quelli della Cina. E il Partito comunista si è servito della globalizzazione non soltanto per accrescere la ricchezza nazionale, ma anche per portare fuori dalla povertà centinaia di milioni di concittadini. Non bastasse, il Dragone Rosso ha lavorato sulla propria reputazione con risultati apprezzabili, seppure disomogenei.

Se la Cina è soltanto il 120esimo paese più popolare (su 195) in America secondo YouGov, una recente indagine di Swg racconta invece che gli italiani ne vanno pazzi. Tra le nazioni considerate amiche, gli italiani stimano la Cina al 52 per cento contro il 17 per cento degli Stati Uniti e auspicano future alleanze col Dragone Rosso (36 per cento) più che con l’Aquila dello stemma americano (30 per cento). La conferma dell’appeal cinese si rileva anche nella preferenza che gli italiani accordano ai prodotti che provengono dalla Cina (45 per cento), rispetto a quelli provenienti dagli Stati Uniti (33 per cento). E poco importa agli italiani che in America l’Italia sia invece il quarto paese più amato, l’unico tra i primi sette preferiti a non avere l’inglese tra le proprie lingue ufficiali (sono ancora dati YouGov).

Il nuovo mood italiano filocinese non è, insomma, solo il frutto delle recenti simpatie politiche delle attuali forze di governo. È anche il portato dei grandi cambiamenti dell’opinione pubblica. A settantacinque anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, a una trentina d’anni dalla conclusione della Guerra fredda e a una ventina dall’attacco alle Twin Towers, nelle preferenze degli italiani s’intravedono sentimenti nuovi e orientamenti culturali profondi, che condizioneranno le scelte future del nostro paese, piccola potenza locale che pure avrà una parte da recitare sul palcoscenico globale.

Su questo complicato proscenio prenderanno corpo, difatti, vari conflitti e non tutti chiameranno l’Italia a giocare un ruolo strategico. Ma il conflitto principale cui toccherà necessariamente prendere parte è proprio quello tra America e Cina. E le recenti accuse di Donald Trump e del suo Segretario di Stato Mike Pompeo alla Cina sulla diffusione del corona virus ne sono solo l’ultima avvisaglia. Perché questo conflitto, come spiega Alessandro Aresu nel suo recente e importante studio su “Le potenze del capitalismo politico”, «è già in atto. Esso riguarda i due “capitalismi” in grado di pesarsi e di sfidarsi per il primato mondiale. È un conflitto che si combatte anche con le armi del diritto e che segna in modo decisivo quella “corsa alla sicurezza nazionale” che insegue, come un’ombra, la fiducia nei mercati espressa da Greenspan nello scorso decennio».

La tradizionale collocazione geopolitica e geoeconomica situerebbe l’Italia dalla parte degli States. Una collocazione generata della storia e diventata “tradizionale” proprio forgiata dal sentimento nazionale e dall’orientamento culturale repubblicano. Tuttavia i nuovi sentimenti e orientamenti mettono in discussione questa tradizione. E siccome, come ci hanno spiegato quarant’anni fa Eric Hobsbawm e Terence Ranger, la tradizione è spesso inventata dagli uomini, si capisce perché agli italiani stare dalla parte dell’America appaia oggi assai meno tradizionale di quanto apparisse ieri.

L’America ha d’altronde abbandonato l’Italia e l’Europa da almeno tre presidenti. Dopo il disastro iracheno di Bush jr. e il disengagement di Barack Obama, Donald Trump sta seguendo un indirizzo isolazionista rigoroso. L’ultimo presidente interventista è stato Bill Clinton. Dalla stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat all’impegno militare contro la pulizia etnica ingaggiata da Slobodan Milosevic, fino al sostegno alla spinta verso est del processo d’integrazione europea, Clinton è stato l’ultimo leader americano a seguire la lezione di Wilson e di Roosevelt.

Bush jr. ha rotto la relazione speciale con l’Europa, alimentando le divisioni nel vecchio continente. Il flop in Iraq non ha soltanto evidenziato i limiti dell’hard power statunitense, ma ha dato un colpo durissimo al soft power e al way of life americani. Barack Obama ha abbracciato un isolazionismo disciplinato, diminuendo l’utilizzo di hard e soft power in giro per il mondo. La ritirata obamiana ha però lasciato spazio – in Europa, in Asia e in Africa – all’avanzata dei paesi totalitari e delle democrazie illiberali. Trump prosegue la politica obamiana, con più cinismo da un lato, ma almeno senza quella retorica internazionalista a buon mercato che infarciva i discorsi del suo predecessore.

Se gli italiani hanno preso una cotta per la Cina, lo si deve anche a questa nuova America in “Retreat”, titolo del bel libro del giornalista Bret Stephens. L’appeal americano in Italia era andato crescendo negli anni della Guerra fredda per la capacità statunitense d’intervento economico e militare, politico e culturale, senza eguali nella recente storia umana. A dirla tutta, se sul piano militare e politico, le varie amministrazioni a stelle e strisce commettevano più di un errore, l’America mostrava di restare fascinosa e attrattiva per l’attitudine (profondamente ideologica) di presentarsi come la terra delle opportunità e delle libertà.

Il liberalismo americano e occidentale – in una sola parola: atlantico – è stato per anni il più potente faro del mondo. Il fascio di luce che proiettava su ogni angolo del pianeta ha rappresentato la guida più solida per chiunque aspirasse ad abbracciare una dimensione della propria esistenza pienamente libera, dunque conseguentemente giusta. Il fascio di luce del faro atlantista ha avuto la meglio perché s’incaricava di soddisfare sia le vecchie libertà illuministe di parola e di culto sia le novecentesche libertà materiali: quella dal bisogno e quella dalla paura. Le quattro libertà roosveltiane raccontavano insieme la forza morale del way of life occidentale e l’utilità pratica di far riferimento a esse per vivere una vita pacifica, operosa e prospera.

A trent’anni dalla fine della Guerra fredda, quel faro spande una luce assai meno intensa. Molti ne danno per scontata l’esistenza, come se non fosse una costruzione umana. Il perdurante stato di pace veste d’irragionevole ineluttabilità il possesso delle libertà fondamentali. Allo stesso tempo, la massiccia fuoriuscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone nella porzione di mondo estranea alla liberaldemocrazia indebolisce la convinzione che il binomio tra democrazia e capitalismo sia quello più utile a lenire le sofferenze umane. Mentre le libertà illuministe perdono vigore, le libertà novecentesche figlie dell’eguaglianza mostrano di essere meno efficaci di un tempo.

“The Light that Failed” di Ivan Krastev e Stephen Holmes è il libro che meglio spiega come il faro del liberalismo necessiti di urgenti riparazioni. Anche perché sarà sottoposto a nuovi appannamenti. È ovvio, infatti, che le nazioni più arretrate socialmente e culturalmente abbiano agio nell’utilizzare le forti performance di crescita per scopi distributivi. Il loro gap rispetto ai paesi occidentali è tale che le acquisizioni sociali sono già evidenti a occhio nudo e quasi non richiedono misurazioni empiriche. Questa constatazione dice già molto, ma aggiunge ancora altro, poiché essendo il gap tra Occidente e resto del mondo ancora notevole, quelle acquisizioni continueranno felicemente ad aumentare, con conseguente aumento dell’appeal dei sistemi non democratici.

L’emergenza sanitaria del coronavirus e le successive crisi economiche e sociali renderanno più visibili e drammatici i processi in corso. Le crisi, tutte le crisi, sono valichi verso sviluppi non prevedibili, cui solo l’ingegno individuale e la capacità di cooperazione di donne e uomini di buona volontà possono dare forma. La sfida delle liberaldemocrazie è, ad un tempo, ideologica e pragmatica. Si tratta di rimotivare l’orizzonte morale delle libertà illuministe e di rilanciare l’utilità materiale delle libertà sociali novecentesche. Solo mettendo mano a entrambe il faro del liberalismo potrebbe riprendere a rilucere come un tempo.

Prima di essere il titolo del saggio di Krastev e Holmes, “The Light that Failed” è stato il titolo del romanzo d’esordio di Rudyard Kipling. Un romanzo d’amore che, come pure ricordano i due saggisti, ebbe due versioni differenti: una breve con lieto fine, l’altra più lunga con finale infelice. Non c’è dubbio che anche la scommessa sulla democrazia liberale sia aperta a entrambi questi esiti.

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