La nuova normalità? È iniziata da tempo nella realtà psicotica dei «fatti alternativi» d’un presidente che ostentatamente s’ostina a non indossare la mascherina, magari per sproloquiare più liberamente, eccitarsi per ogni aiuto che il governo federale eroga per uno Stato o per una città come fosse un’elargizione personale, o per la borsa che vola – ah sì, per merito suo – e che annuncia l’anno in arrivo come «uno dei migliori mai visti».
Già, perché di quello in corso meglio non dire: i decessi da coronavirus sono 101.000, e secondo le stime saranno 123.000 in tre settimane, nella desolazione di un’economia che conta 40 milioni di disoccupati, e altri sono in arrivo.
È il new normal che si vede a Minneapolis in questi giorni, agenti bianchi che ammazzano un giovane nero disarmato e arrestato senza motivo. È un «new» che sa molto di «old», anche se nuovo è lo scenario in cui s’incornicia l’episodio e che lo rende, se possibile, ancora più deprecabile e inaccettabile dei tanti, simili, del passato.
A Minneapolis è successo quello che è accaduto troppe volte in America. Troppe volte – specifichiamo – negli ultimi anni, perché, se volgiamo più indietro lo sguardo, sono infinite le volte in cui gli americani di colore sono stati vittime di brutalità omicide come quella consumata contro George Floyd.
Infatti, gli scoppi di rivolta in numerose città, dopo Minneapolis, sono la reazione non solo a quest’ultimo episodio ma soprattutto alla catena senza fine di episodi così a cui altrettante volte è stato detto basta. Un basta che non è bastato a nulla.
Episodi che s’inquadrano spesso in circostanze di degrado sociale o in fasi di crisi, che colpiscono con durezza le fasce più fragili.
Per milioni di americani, commenta Barack Obama in un tweet,«essere trattati diversamente sulla base della razza è tragicamente, dolorosamente, pazzamente ‘normale’, sia che s’abbia a che fare con il sistema sanitario, o con il sistema giudiziario o che si faccia jogging in strada, o solo s’osservi gli uccelli in un parco».
Minneapolis è una conferma di questo stato di cose. Conferma che alimenta ulteriormente la rabbia, perché evidenzia la condizione ancora inaccettabile delle comunità nere, il tasso di razzismo che le circonda, un quadro reso drammaticamente eloquente dalla pandemia in corso. In questo contesto avviene l’uccisione di George Floyd.
Un episodio come tanti, troppi, eppure diverso da tutti gli altri precedenti. Specie per le conseguenze che avrà.
Scrive sul New York Times Keeanga-Yamahtta Taylor, docente a Princeton di African-American studies: «Il fatto stesso che Floyd sia stato arrestato, senza contare che è stato ucciso, per un ‘reato’ inesistente nel corso di una pandemia che ha tolto la vita a un africano-americano su duemila è l’agghiacciante affermazione che le vite dei neri tuttora non hanno importanza negli Stati Uniti».
Sono finora 23.000 i decessi nella comunità nera. Dati a cui va aggiunto l’atteggiamento tenuto spesso verso i neri colpiti dal virus. «Non sono solo gli alti tassi di morte ad alimentare la rabbia – scrive ancora la studiosa di Princeton – ad alimentarla sono anche i casi in cui ad africano-americani è stata negata l’assistenza medica perché infermiere e dottori non credevano alle loro denunce di sintomi. Così come fa impazzire di rabbia il sentir dire che gli africano-americani hanno una salute particolarmente cagionevole e pertanto portano loro la responsabilità di tanti decessi in numero così sproporzionato».
Dell’America che fu guidata da Obama, è presidente un bianco che piace al KKK e che dà ordine alla Guardia nazionale del Minnesota di schierare 500 militari intorno ai quartieri neri di Minneapolis and St. Paul.
Ha interesse a contenere la rivolta o a fomentarla? Ha interesse a far esplodere la rabbia anche in altre città, oltre quelle già in rivolta al fianco di Minneapolis? È lo stesso presidente che ha definito «very good people» i manifestanti bianchi che in Michigan, Virginia e lo stesso Minnesota protestavano contro il lockdown con fucili d’assalto e pistole.
«Liberate il Michigan», «Liberate la Virginia», «Liberate il Minnesota», i suoi tweet sparati contro tre Stati guidati da governatori democratici. Soffia sul fuoco, Trump, deliberatamente, sia per spingere alla mobilitazione la sua base militante bianca sia anche contando sul disorientamento che regna in questa fase in campo democratico, in particolare proprio nel rapporto con la comunità nera.
Un passo falso di Joe Biden sta rendendo complicato lo sforzo di mobilitare l’elettorato africano americano al suo fianco. Biden, con una banale battuta, ha rivelato di considerare scontato l’appoggio della comunità nera, per il solo fatto, implicito nella sua battuta, che è lo sfidante di un bianco razzista.
Ora, la variante soft e apparentemente innocente del razzismo è il paternalismo bianco – «scelgo io bianco quel che è meglio per te nero» – che nell’America d’oggi può essere considerato persino più oltraggioso del razzismo esplicito.
A questo s’aggiunga la scelta del numero due del ticket presidenziale, che nelle attese dei neri deve essere uno o una di loro. Già, ma chi? E poi la scelta del running mate secondo un solo criterio dominante, non sempre «paga». Non può essere l’unico criterio.
Ma queste che normalmente potrebbero essere questioni spinose ma risolvibili, in una situazione così tesa rendono più facile e molto più insidioso il «movimentismo sovversivo» del presidente. Al quale non pone limiti.
Anche perché la strategia della tensione razziale è anche l’impensabile ma reale ultima spiaggia di un candidato che, messo ko dagli elettori, potrebbe non riconoscere la sconfitta e chiamare alla rivolta quei ceffi che, in divisa, uccidono persone buone come George Floyd, e imbracciando le armi minacciano i dirigenti, democratici, di una Stato che cercano solo di svolgere la funzione per la quale sono stati eletti.
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