Having directly witnessed the effect the Internet has had on television journalism in the last decade, I would have half an idea about the impact of the digital revolution on traditional media. We are talking about a radical transformation that in just a few years has revolutionized modes of production and labor, content, consumption and in general the economic model for audio-visual content, which TV had monopolized for half a century. The brave new world of the Internet is still being defined, but is nonetheless where we find ourselves living and whose symbol and putative model, as everyone knows, would be YouTube. Like the Web in general, the video-sharing service is undergoing a transition from a democratically open source to a commercial model, triggered in part by its acquisition by Google in 2006 for $1.6 billion. Since then, in order to perpetuate its image as a free and horizontal "social forum," the Mountain View giant is working toward transforming what was a "planetary" container of unfiltered amateur videos into a more polished and above all commercially viable network.
In this light, YouTube has undertaken a program of incentivizing original productions, web series and channels to preferably entrust to industry professionals or "YouTubers" on whom the company has also lavished co-production funds. For some time now, there are also some production centers operating — in Tokyo, Los Angeles and London — which make available studies, production means and continuing education courses for video authors in an effort to "professionalize" the amateur network. Not incidentally, Susan Wojcicki, the newly installed director of the network, was at the head of Google's advertising division.
At the same time, the "monetization" of the videos loaded on the network was simplified and opened to all. In theory, all it takes is clicking on the option and video authors can partake in Google's advertising proceeds. In this way, over the last few years thousands of people have tried to turn YouTube into an occupation, transforming their channels into editorial commercial micro-initiatives. But what to many seemed an opportunity to become self-producers with total editorial freedom and independence has often revealed itself to be an illusion.
In reality, advertising fees on the Internet are still so low that hundreds of thousands, if not millions, of viewings are necessary before being able to realize the first small earnings — also because YouTube keeps 45 percent of the proceeds for itself (seeing profits of $5.6 billion last year). As the New York Times wrote in that beautiful article, YouTube's own directors advise against relying on the channel as a reliable source of income, suggesting using it mainly as a promotional tool, with "diversification" in mind. Basically, "make yourselves known, become famous and wait to be discovered and signed by a traditional channel like on TV. Or sell T-shirts and souvenirs." This in the face of a huge amount of work and professionalism in effect equal to or in excess of a "traditional" profession.
This is the same old model of "we cannot pay you, but you will see how much exposure you get" that any creative person well knows ad nauseam by now, omitting that many creative types are on YouTube because they have lost all prospects in traditional sectors that are in catastrophic crisis. In reality, the "democratic" dismantling of the editorial monopolies of the old media happened at the cost of a wild liberation — a race toward the bottom where, against the unmeasured growth of the labor force, profits concentrate themselves in a minute elite. The commercialization of free content — like that of personal data — by the Silicon giants reflects to the extreme the (non-)work model subordinate to the globalist era.
Ultimately, YouTube is part of the post-work theorem in a digital-liberator market which favors richer and more elitist oligarchies than those of post-WWII industrial capital — an inequality engine destined to exacerbate the exploitation of labor.
Teorema Youtube
—Luca Celada, 11.2.2014 —
Avendo testimoniato in prima persona l’effetto che nell’ultimo decennio internet ha avuto sul giornalismo televisivo, una mezza idea dell’impatto della rivoluzione digitale sui media tradizionali ce l’avrei. Si tratta di una trasformazione radicale che ha rivoluzionato in pochi anni modalita’ di produzione e di lavoro, contenuti, fruizione e in generale il modello economico dei contenuti audiovisivi che per mezzo secolo erano monoplio dalla TV. Il nuovo mondo coraggioso di internet e’ ancora in via di definizione ma e’ nondimeno quello in cui ormai ci troviamo tutti a vivere e di cui il simbolo e putativo modello come tutti sanno sarebbe Youtube. Come la rete in generale, il servizio di videosharing sta completando una transizione da democratica open source ad un modello commerciale innescato dalla sua acquisizione da parte do Google nel 2006 per $1,6 miliardi. Da allora, pur perpetuando un’immagine di “foro sociale” libero e orizzontale, il gigante di Mountain View sta lavorando per trasformare quello che era un contenitore “planetario” di video amatoriali e non filtrati, in una rete piu’ patinata e soprattutto piu’ commerciabile. In quest’ottica Youtube ha intrapreso il programma di incentivazione di produzioni orginali, web series e “canali” da affidare preferibilmente a professionsiti del settore o a “youtuber” a cui l’azienda ha anche elargito fondi di coproduzione. Da qualche tempo a questa parte sono anche operativi alcuni centri di produzioni (Tokyo, Londra, Los Angeles) nei quali vengono messi a disposizione studi, mezzi di produzione e corsi di formazione a videoautori nel tentaivo do “professionalizzare” la rete amatoriale. Susan Wojcicki, la neoinsediata direttrice della rete e’ stata non a caso a capo della divisione pubblicta’ di Google
Allo stesso tempo la “monetizzazione” dei video caricati sulla rete e’ stata semplificata e aperta a tutti. In teoria basta cliccare l’opzione e gli autori dei video possono partecipare nei proventi delle pubblicita’ vedute da Google. Cosi’ migliaia di persone negli ultimi anni hanno tentato di fare di Youtube un mestiere, trasformando i propri canali in micro operazioni editoriali “commerciali” – ma quello che a molti e’ sembrata l’opportunita’ di diventare produttori di se stessi con totale liberta’ editoriale e autonomia si e’ spesso rivelata un’illusione.
In realta’ le tariffe pubblicitarie su internet sono ancora cosi’ basse che sono necessarie centinaia di migliaia (o meglio, milioni) di visioni prima di poter realizzare i primi esigui guadagni – anche perche’ Youtube si tiene il 45% dei proventi (realizzando lo scorso anno utili per $5,6 miliardi) . Come ha raccontatao il New York Times in questo bel articolo, gli stessi dirigenti di Youtube sconsigliano di affidarsi al canale per una fonte affidabile di sostenatmento, suggerendo si usarlo principalment come strumento promozionale in vista della ”diversificaazione”. In pratica: “fatevi conoscere, diventate famosi e aspettate di venire scoperti e scritturati da un canale tradzionale come una TV. Oppure vendete magliette e souvenirs”. Questo a fronte di una mole di lavoro e professionalita’ che a tutti gli effetti equivale o eccede quelle di una professione “tradizionale”.
Il solito modello del “non ti possiamo pagare, ma vedrai che esposizione” che ogni creativo conosce ormai alla nausea, omettendo il fatto che molti creative sono su Youtube perche’ hanno perso ogni prospettiva in settori tradizionali in catastrofica crisi. Nella realta’ lo smatellamento “democratico” dei monopoli editoriali del Old Media e’ avvenuto al costo di un liberismo selvaggio – una corsa verso il basso in cui a fronte all ampliamento smisurato della forza lavoro i guadagni si concentrano in una minuscola élite. La commercializzazione dei contenuti gratuiti (come quella dei dati personali) da parte dei colossi di Silicon riflette ed estremizza il modello del (non)lavoro subaltern in era globalista.
Alla fine Youtube e’ parte del teorema del post-lavoro in un mercato digital-liberista che favorisce oligarchie piu’ ricche e piu’ élitarie di quelle del capitale industriale del dopoguerra. Un motore di inuguaglianza destinato ad esacerbare lo sfruttamento del lavoro.
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It is doubtful that the Trump administration faces a greater danger than that of dealing with the Jeffrey Epstein files, because this is a danger that grew from within.