The US and the Anti-Europe Resentment Trend

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Chi, tra i lettori della Stampa, è inorridito leggendo nell’intervista al candidato repubblicano Mitt Romney di Paolo Mastrolilli il giudizio capestro «A voi europei non daremo un centesimo», può consolarsi pensando che nei caucauses dell’Iowa, fiera agricola dell’iperbole politica, se ne sono sentite di peggiori. «Caucaus» sono oggi quiete assemblee di cittadini che scelgono lo sfidante per la Casa Bianca, un tempo erano i «guerrieri saggi» per gli indiani Iowans e Algonquin. Altre etimologie, più prosaiche, fanno risalire il termine alla coppa in uso per i brindisi di gruppo al vecchio Caucaus Club di Boston, ma, comunque sia, il mormone Romney non aveva lunedì né bevuto, né espresso vedute da capo tribù.

Guardava al populismo che anima tanti elettori della destra repubblicana, e che con sagacia il vecchio Ronald Reagan teneva a bada, ammonendo «appellatevi ai buoni, non ai cattivi istinti dei cittadini». Oggi, nella campagna elettorale americana, essere europei non è di moda, non più di quanto sia in voga predicare le virtù del capitalismo Usa a Roma, Parigi e Atene. Vivo da pendolare tra gli Stati Uniti e Unione Europea e ricordo quel che mio figlio scrisse nel suo test di ammissione al college «Passo la vita a difendere l’Europa in America, e l’America in Europa».

Sforzo nobile, ma controcorrente. Se lo slogan ruvido di Romney vi è sembrato un’esagerazione, leggete l’editoriale di ieri sul Wall Street Journal, con Bret Stephens (bstephens@wsj.com) ad assicurare i lettori che se Obama sarà rieletto le stelle della bandiera americana Old Glory (il soprannome che le diede nell’Ottocento il capitano Driver) si muteranno in quelle oro su fondo blu del vessillo europeo. Stephens preconizza Obama II come amministrazione del declino europeo, spesa e debito, sindacati, stato sociale, imprese avvilite, in una parola sola «socialdemocrazia» e non lo scrive certo per complimento.

Che lo stato sociale europeo classico stia scomparendo ovunque, che il modello stato-mercato, il capitalismo «renano», la socialdemocrazia, il patto impresa-lavoro, condizioni di lavoro sicure dal primo contratto alla pensione, siano ormai un ricordo bello del Novecento, sfugge ai repubblicani, che ne fanno tabù contro Obama. Anziché riflettere sulla crisi di Wall Street 2007-2008 da una parte, e sull’impossibilità di sostenere il welfare Ue nell’economia globale, Usa ed Europa si perdono in un derby di slogan per elettori gonzi, preparatevi a Sarkozy e Merkel in campagna elettorale.

Romney, da governatore del Massachusetts 2003-2007, ha diretto uno stato che è forse, riforma sanitaria inclusa, il più «europeo» d’America. Uomo preparato e, almeno a confronto con gli esagitati rivali, moderato, sa benissimo che la fine dell’euro trascinerebbe l’America in cupa recessione. Se Stephens fa il tosto cercando visibilità, Romney lo fa cacciando voti. Poi sorriderà ai vertici di Bruxelles.

Come due nobili decaduti Europa e America continueranno a rivaleggiare sul proprio albero genealogico passato, mentre Cina, India e Brasile avanzano. Ma le loro economie, banche, imprese, finanza, consumi, sono gemelle siamesi. Passerà anche questa stagione di rancori. Nell’attesa, senza perdere fiducia, il lettore ricordi che se tanti oggi hanno nostalgia del Piano Marshall che con 13 miliardi di dollari (sommati a 12 elargiti prima del 1948) salvò l’Europa dalla fame, anche quel nobile gesto non fu né facile, né popolare. Il presidente Truman e il segretario di Stato Marshall lo idearono e difesero. La destra repubblicana di Taft lo attaccò ogni giorno al Congresso, definendolo, come i suoi nipotini di oggi in Iowa, una rovina socialista. E, Occupy Wall Street ante litteram, la sinistra radicale dell’ex vicepresidente Wallace lo boicottò: «E’ il Martian Plan, Piano Marziale che ci riporterà alla guerra».

Speriamo che, come allora, i tromboni populisti facciano molto chiasso e poco danno.

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