Quando a metà aprile Benedetto XVI atterrerà all’aeroporto militare della Andrews Air Force Base di Washington, gli Stati Uniti passeranno in testa alla classifica dei paesi più visitati dai papi. A pari merito con la Polonia per numero di visite, nove. E assieme alla Turchia per numero di papi visitatori, tre, prima di lui i suoi predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Quest’ultimo, viaggiatore sfrenato, girò in lungo e in largo gli Stati Uniti. Nella sua prima visita, nel 1979, in sette giorni toccò sette città e pronunciò 63 discorsi. Il più pacato Joseph Ratzinger, anche lui in sette giorni, farà invece due sole tappe, a Washington – dove il 16 aprile incontrerà George W. Bush alla Casa Bianca – e a New York, e pronuncerà appena 11 discorsi. Ma di questi, pur solo annunciati, almeno due già fanno trepidare, dopo che a Ratisbona l’attuale papa ha mostrato al mondo di quali spericolati affondi è capace. Saranno il discorso del 17 aprile, a Washington, ai rappresentanti dell’ebraismo, dell’islam e di altre religioni, e quello del 18 aprile, a New York, all’assemblea generale delle Nazioni Unite.
A Ratisbona, Benedetto XVI denunciò come errori capitali del mondo d’oggi il distacco della fede dalla ragione, di cui accusò l’islamismo, e la perdita della fede nella ragione, che invece imputò alla cultura dominante in Europa e in America. Dalla tribuna dell’ONU, si può scommettere che egli farà un passo in più, offrirà al mondo una grammatica di pace fondata sulla legge naturale, sui diritti inviolabili scolpiti nella coscienza di ogni uomo ma anche scritti in quella “Dichiarazione universale” di cui si celebra proprio nel 2008 il sessantesimo compleanno.
Previsione facile, se solo si bada a cosa disse il papa, lo scorso 29 febbraio, ricevendo la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Mary Ann Glendon. Per Benedetto XVI, gli Stati Uniti sono un modello da imitare per tutti. Sono il paese che è nato ed è fondato “sulla verità evidente che il Creatore ha dotato ogni essere umano di diritti inalienabili”, il primo dei quali è la libertà.
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Con questo papa, gli Stati Uniti hanno cessato di essere tenuti in castigo dalle autorità vaticane. Fino a pochi decenni fa erano tacciati d’essere il tempio del capitalismo calvinista, del consumismo, del darwinismo sociale, della sedia elettrica, del grilletto facile in ogni angolo del mondo.
Oggi questi paradigmi appaiono in buona misura accantonati. La Chiesa di Roma ha contestato con forza l’attacco militare all’Iraq di Saddam Hussein. Anche Benedetto XVI l’ha fatto. Ma ora non preme per il ritiro dei soldati. Vuole che restino là “in missione di pace”, anche a difesa delle minoranze cristiane.
In ogni caso il giudizio generale sugli Stati Uniti è cambiato in positivo, di pari passo con i giudizi sempre più pessimistici sull’Europa. All’ambasciatrice Glendon, Benedetto XVI ha detto di ammirare “lo storico apprezzamento del popolo americano per il ruolo della religione nel forgiare il dibattito pubblico”, ruolo che invece altrove, leggi in Europa, “è contestato in nome di una comprensione limitata della vita politica”. Con le conseguenze che ne derivano sui punti che alla Chiesa stanno più a cuore, come “la tutela legale del dono divino della vita dal concepimento alla morte maturale”, il matrimonio, la famiglia.
Con i presidenti repubblicani, da Reagan ai due Bush, la Chiesa di Roma si è trovata in più frequente sintonia che con il democratico Clinton, proprio per il maggiore dedicarsi dei primi a tutelare la vita e a promuovere la libertà religiosa nel mondo. Al Cairo nel 1994 e a Pechino nel 1995, nelle due conferenze internazionali convocate dall’ONU sulla questione demografica e sulla donna, entrambe con Clinton presidente, la delegazione della Santa Sede combatté tenacemente contro Stati Uniti ed Europa che volevano incentivare l’aborto per ridurre le nascite nei paesi poveri.
E a Pechino chi era alla testa della squadra vaticana? Mary Ann Glendon, femminista convertita, docente di legge alla Harvard University, poi promossa da Giovanni Paolo II presidente della pontificia accademia delle scienze sociali e oggi ambasciatrice degli Stati Uniti. Il suo discorso calò come una lama tagliente: “La conferenza vuole contrastare le violenze patite dalle donne? Giusto. E allora prendiamone nota. Tra le violenze ci sono i programmi obbligatori di controllo delle nascite, le sterilizzazioni forzate, le pressioni ad abortire, la preselezione dei sessi e la conseguente distruzione dei feti femminili”.
In una raccolta di suoi saggi che escono in questi giorni in Italia editi da Rubbettino, Mary Ann Glendon ritorna polemicamente su ciò che accadde a Pechino e negli anni successivi. Accusa i paesi ricchi di aver stretto la borsa degli aiuti preferendo la scorciatoia abortista di una frenata demografica a costo zero. Accusa soprattutto le élite laiche occidentali di aver sostituito al “linguaggio ampio, ricco, equilibrato” della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il “gergo mediocre” dei desideri individuali senza più doveri e responsabilità. La sua requisitoria è stata ripubblicata da “L’Osservatore Romano”.
Per questi stessi motivi più volte, negli ultimi anni, le autorità vaticane hanno criticato l’ONU e l’Unione Europea. Ciò non toglie che la Santa Sede continui a dare credito e sostegno alle Nazioni Unite come strumento pacifico di soluzione delle controversie internazionali.
All’ONU la Santa Sede è presente come “stato osservatore permanente”. Non vota ma ha diritto di parola e di replica. Una campagna per la sua estromissione, orchestrata alcuni anni fa da organizzazioni non governative impegnate nel controllo delle nascite e indispettite per l’opposizione vaticana, ha ottenuto l’effetto contrario. Nel luglio del 2004 l’assemblea generale dell’ONU ha approvato all’unanimità una risoluzione che non solo ha confermato, ma ha rafforzato la presenza della Santa Sede nell’organizzazione.
Dalla tribuna dell’ONU Benedetto XVI parlerà al mondo intero, nel quale i cattolici sono meno di un sesto della popolazione. Neppure negli Stati Uniti i cattolici sono maggioranza. Sono circa 70 milioni su 300 milioni, il 23,9 per cento, secondo una recentissima indagine del Pew Forum on Religion & Public Life condotta su un campione di 35 mila americani. Ma sono pur sempre un blocco cospicuo, parecchi più che in Italia, e lo sono all’interno di un paese a forte dominante cristiana, con indici di partecipazione religiosa molto più alti che in Europa.
Nelle presidenziali del 2004 i cattolici hanno contribuito non poco alla rielezione di George W. Bush. Ma le gerarchie non diedero indicazioni di voto, né le daranno per le prossime elezioni. I cattolici pro vita inclinano per il repubblicano John McCain, quelli pro pace e giustizia per i democratici Hillary Clinton o Barack Obama. Le autorità della Chiesa comunque apprezzano che tutti i candidati abbiano dato un posto preminente al fattore religioso.
Perché gli Stati Uniti sono fatti così. Sono l’avanguardia della modernità e nello stesso tempo la nazione più religiosa del mondo. Sono un modello di separazione tra Chiesa e stato e nello stesso tempo un paese con forte rilevanza pubblica delle religioni. L’indagine del Pew Forum ha accertato che gli atei e gli agnostici sono in quantità ridottissima, rispettivamente l’1,6 e il 2,4 per cento, nonostante sui media sembrino molto più numerosi e vocianti.
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Ma il dato più rilevante dell’indagine è un altro. È il numero altissimo di cittadini americani che passano da una confessione religiosa a un’altra o che “rinascono” a nuova vita spirituale pur restando nella stessa religione.
Non c’è nazione al mondo in cui il mercato religioso sia altrettanto vibrante e la competizione così serrata. Il 44 per cento degli americani sopra i 18 anni ha cambiato affiliazione religiosa anche più di una volta, oppure è passato dall’incredulità a una fede, o viceversa.
Tra le confessioni protestanti, cui appartengono circa la metà degli americani, sono in netto calo quelle di orientamento “liberal” in tema di diritti individuali. Mentre crescono quelle “evangelical”, puritane, alcune di tradizione fieramente antipapista ma oggi avvicinatesi alla Chiesa di Roma in nome della comune battaglia per la difesa della vita.
Tra i cittadini americani cresciuti nella Chiesa cattolica se ne è andato via uno su tre. Ma questa perdita è stata compensata dall’acquisto di nuovi convertiti e dall’arrivo di molti immigrati cattolici da vari paesi, soprattutto dall’America latina.
Questo innesto migratorio è di tali proporzioni che sta letteralmente cambiando faccia al cattolicesimo degli Stati Uniti. E a Roma lo sanno bene, tant’è vero che all’ultimo concistoro, il 24 novembre 2007, Benedetto XVI ha fatto cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston e Houston nel Texas, una diocesi mai in precedenza onorata con la porpora ma dove il numero dei cattolici è in vertiginoso aumento, così come in altre diocesi meta di immigrazione, ad esempio Dallas, dove i cattolici erano vent’anni fa 200 mila e oggi sono oltre un milione, per lo più arrivati dal Messico.
Se si aggiunge che il Messico è il paese latinoamericano nel quale la Chiesa cattolica è più vitale anche tra i giovani, con un’impressionante fiorire di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, si comprende un’altra novità del cattolicesimo degli Stati Uniti: l’abbassamento della sua età media.
Tra i cattolici con più di 60 anni la stragrande maggioranza sono bianchi, ma tra quelli d’età tra i 18 e i 40 quasi la metà sono “latinos”, cioè arrivati dal Messico e da altri paesi latinoamericani. Freschi acquisti che compensano l’abbandono della Chiesa cattolica da parte di giovani bianchi sotto i 30 anni, la fascia d’età più erosa dalla secolarizzazione.
In tutto il 2007 il “New York Times” ha messo in prima pagina Benedetto XVI solo due volte, contro le 25 di Giovanni Paolo II nel terzo anno del suo pontificato. Ma col suo prossimo viaggio papa Ratzinger ricupererà terreno. Gli Stati Uniti appaiono a lui terra di semina molto promettente. La diocesi di Denver, l’anno dopo la Giornata della Gioventù del 1993, registrò 2 mila nuovi convertiti e un aumento dell’8 per cento nella frequenza alla messa. La stanca Europa cattolica impari.
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