«Le Olimpiadi — spiegava giorni fa Michael Green, fino a due anni fa assistente speciale della Casa Bianca per i rapporti con l’Asia — sono il momento in cui la Cina si apre al mondo. Se le facciamo fallire, Pechino perderà la faccia. Dopo, diventerà molto più difficile lavorare con loro su tutto, dai diritti umani al contenimento della Corea del Nord». Mentre in Europa cresce la protesta per le repressioni nel Tibet, la sensazione è che l’America di Bush, che ha giustificato la guerra in Iraq con la causa del ripristino dei diritti umani calpestati da Saddam, ora si volti dall’altra parte, presumibilmente per gli stretti rapporti economici tra i due Paesi.
Si può pensare perfino a un atteggiamento comune del mondo anglosassone, visto che anche il britannico Gordon Brown fin qui ha evitato di criticare con troppa durezza il regime cinese. In realtà il Bush che non solo esclude il boicottaggio dei Giochi, ma conferma la sua presenza alla cerimonia d’apertura, non è il «cowboy» tanto spregiudicato quanto ricattabile entrato nell’immaginario di molti di noi. Stavolta si comporta da presidente pragmatico — in questo, sì, anglosassone — che promuove lo sviluppo degli scambi commerciali, ma è ugualmente pronto a incontrare per la prima volta il Dalai Lama alla Casa Bianca (ottobre scorso) e a presenziare alla consegna della medaglia d’oro del Congresso al leader spirituale dei tibetani. Ora, mentre conferma che andrà a Pechino, Bush telefona al presidente Hu per chiedergli di avviare un dialogo vero col Dalai Lama e preme sul governo cinese non solo sulla questione tibetana ma anche su Taiwan, i rapporti con l’Iran, il fair trade.
Certo, vedendo la protesta che arriva fino in cima al Golden Gate di San Francisco e Hillary Clinton e Barack Obama che gli chiedono di disertare la cerimonia, si può avere la sensazione di una spaccatura tra democratici e repubblicani. In realtà tutti si muovono con prudenza: nessuno, fin qui, ha infatti proposto il boicottaggio delle Olimpiadi, uno strumento che anche i liberal del New York Times giudicano inefficace e, anzi, controproducente. E Obama la scorsa settimana ha detto che va trovato il giusto equilibrio tra le pressioni su Pechino per il rispetto dei diritti umani e la necessità di coltivare relazioni positive con la Cina nel lungo periodo. Parole dalle quali trapela la stessa preoccupazione di Bush per quella che il presidente chiama la «complessità delle relazioni Usa-Cina».
Più sbrigativo, semmai, il conservatore McCain che, con un radicalismo un po’ sbarazzino, vuole escludere tanto i russi quanto i cinesi dai summit del G-7, che—dice— deve rappresentare Paesi non solo industrializzati ma anche democratici. Bush, stavolta, rischia di più: prova a negoziare sorridendo, anziché minacciando. Non è facile, ma i cinesi sanno che il presidente può cancellare il suo vaggio a Pechino anche all’ ultimo momento. E che il Dalai Lama è, per loro, in Tibet, l’unico interlocutore possibile. E flessibile.
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