Quando nasceva l’afro-americano Barack Obama, 1961, John Kennedy presentava il disegno di legge «7512» sui diritti civili della gente di colore. Due volte aveva mobilitato l’esercito a tutela del coloured people, discriminato nel profondo Sud. Ma più tardi, dopo l’uccisione di Kennedy, le tensioni razziali erano ancora frequenti. Una serie di tumulti sconvolgeva i ghetti neri per anni, dalla rivolta di Harlem nel ’64 alle sommosse di Los Angeles. Oggi la candidatura presidenziale di Obama, sia eletto alla Casa Bianca o no, segnala quanto sia diversa la condizione della massima società plurietnica e della sua stessa popolazione di colore. Lo storico Fernand Braudel, benché in tempi torbidi, così pronosticava il corso degli eventi successivi: «Malgrado tutto, si vedrà che l’Africa americana è materialmente e intellettualmente la comunità nera più evoluta del mondo».
Il successo di Obama è dovuto alla sua qualità di talented public speaker, nell’ambito d’una società che tende a superare ogni pregiudizio dopo la storica esperienza del melting pot. Ma davvero il prossimo 4 novembre «l’uomo nuovo» potrà ottenere l’elezione presidenziale? La sua base di consensi è anche misurabile considerando l’entità delle sottoscrizioni raccolte in campagna elettorale, fino alla Convention di Denver 350 milioni di dollari. Per tradizione, inoltre, ogni candidato del partito al potere quando l’economia va male, come ora è il caso di John McCain, viene in genere sconfitto. Grava poi sugli umori pubblici la guerra irachena di Bush: «The three trillion dollar war». Eppure, i sondaggi d’opinione oscillano fra le disparate controversie in materia economica o sociale. Dinanzi alle prospettive internazionali, c’è chi sospetta Obama di perseguire una politica reticente o incerta. E c’è chi teme invece un rischioso interventismo del veterano di guerra McCain, anche se a volte i militari non sono affatto bellicisti, come nel caso di Eisenhower, che riuscì a chiudere il conflitto coreano.
Obama concede: «Potrei anche perdere». Tutto è possibile, malgrado l’attesa d’uno scenario politico nuovo insorta non solo fra le ultime generazioni. Certo, se tanti americani oggi non vogliono mostrarsi affetti da pregiudizi, poi c’è il segreto delle urne. Alcuni ceti popolari hanno accolto con diffidenza il candidato con quel nome strano, figlio d’un keniota, di famiglia musulmana, con quei caratteri fisionomici mai visti nei ritratti presidenziali sul biglietto da un dollaro. Al neopresidente si chiederà molto, fronteggiare l’avversa congiuntura economica oltreché avviare a soluzione i conflitti nell’Iraq e nell’Afghanistan, combattere le cospirazioni jihadiste nel Pakistan dopo Musharraf, rimediare agli azzardi politici di Bush in Georgia, vedersela con le sfide di Putin. A questo punto, non sarebbe augurabile per gli Stati Uniti l’elezione di Obama solo per esibizione di spregiudicata e generosa bonomia verso l’afro-americano, ancorché di talento. Ma non sarebbe augurabile neanche l’elezione del «rugoso» McCain solo a causa d’una residua e latente psicologia discriminatoria, forse pure a causa d’una reazione di rigetto alla troppa «obamamanìa» elitaria o mediatica propagata finora.
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