L’altra sera un mio collega stava guardando la Convention democratica con il figlio di nove anni (la febbre elettorale qui ha contagiato anche i più piccini). Il ragazzino era un grosso sostenitore di Barack Obama di cui ammirava la proposta di tassare i ricchi per aiutare i poveri, fintantoché il padre gli chiese se sapeva in che categoria si trovava lui. Appreso con stupore che si trovava ad essere tra quelli che Obama definisce ricchi, il suo entusiasmo per il candidato democratico svanì.
Questa naïveté non è solo dei bimbi. La maggior parte dei cittadini pensa che ricchi siano solo gli altri. Ed essendo per definizione gli altri, i più pensano che sia sacrosanto tassarli. Soprattutto se questo serve a ridurre le imposte di chi, come loro, ricco non è.
Purtroppo, come economista, non posso godere di questa beata ignoranza. So che ricado tra quelli che Obama definisce come ricchi e mi aspetto uno dei più elevati aumenti di imposte che la storia ricordi. Tra l’eliminazione dei tagli di George W. Bush e l’aumento dei contributi sociali si parla di dieci punti percentuali di tasse in più. Una bella batosta, che riduce il mio entusiasmo per il candidato democratico alla Casa Bianca. Dopo aver riflettuto a lungo, però, ho deciso che ha ragione lui: anche se spiacevole, un aumento di imposte sui ceti più abbienti è necessario. E vi spiego perché.
Molti economisti, soprattutto se guadagnano bene, sostengono che un aumento delle aliquote è controproducente. Da un lato spinge tutti i contribuenti a eludere maggiormente le tasse. Dall’altro, spinge i ricchi a lavorare meno o addirittura a emigrare. Il risultato è che il paese produce meno e l’erario incassa meno. Insomma, un enorme autogol. Sicuramente c’è del vero in questa teoria, soprattutto quando le aliquote sono a livelli svedesi. Ma visto che negli Stati Uniti l’aliquota massima è tra il 35 per cento e il 42 per cento, a seconda dello Stato, la grandezza di questo effetto boomerang è discutibile.
Nonostante questi problemi, una redistribuzione del carico fiscale è giustificata dall’enorme aumento della ineguaglianza. Nonostante negli ultimi 25 anni il Pil americano sia più che raddoppiato in termini reali, la maggioranza degli americani ha visto il proprio reddito reale crescere di solo il 17 per cento. Dove sono finiti tutti i soldi? La risposta è: ai più ricchi.
Nell’ultimo quarto di secolo il reddito dell’1 per cento più ricco della popolazione è quasi triplicato, mentre quello dello 0,01 per cento più ricco è più che quintuplicato. Durante l’ultima espansione economica (tra il 2002 e il 2006), l’1 per cento dei più ricchi si è accaparrato il 75 per cento della crescita economica. Non stupisce quindi che ci sia un divario così forte tra le statistiche aggregate e la percezione della maggior parte della popolazione. Come diceva il poeta romano Trilussa, poco conta che in media tutti mangino mezzo pollo, quando c’è chi ne mangia uno intero e chi muore di fame.
Perché questo divario? È il risultato congiunto dell’innovazione tecnologica e della globalizzazione. Se gli amanti di calcio sono disposti a pagare un euro all’anno per vedere giocare il miglior calciatore, quando il mercato era costituito da 10 milioni di famiglie italiane, il compenso massimo per un giocatore era 10 milioni di euro. Quando il mercato diventa globale e comprende 2 miliardi di famiglie, lo stipendio potrebbe arrivare a raggiungere i 2 miliardi di euro. E quello che vale per il calcio, vale anche in altri campi. Una scrittrice di successo come J. K. Rowling oggi può vendere milioni di copie in tutto il mondo nello spazio di pochi giorni. Non a caso è diventata la donna più ricca d’Inghilterra dopo la regina.
Queste tendenze sono molto difficili da contrastare. Nessuno vuole imporre agli spettatori di guardare calciatori di secondo livello o impedire di comprare i libri di successo. Lasciato a se stesso, però, il mercato produce delle differenze di reddito che diventano sempre più insostenibili. Se in una generazione il reddito aumenta solo del 17 per cento, il sogno americano di un continuo progresso viene a infrangersi. Il contratto sociale su cui si basa il funzionamento dell’economia di mercato non regge più. La domanda di protezionismo e la diffidenza per il progresso tecnologico nascono proprio da queste paure.
Cedere alla pressione popolare su questi fronti, però, sarebbe molto più costoso che redistribuire il carico fiscale. Se il prezzo da pagare per preservare il mercato è un carico fiscale più elevato, lo pago volentieri. Il rischio di Obama è che, oltre al carico fiscale, introduca anche il protezionismo!
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