Sarà probabilmente dal «fronte yemenita» della guerra al terrore che capiremo se e quanto Barack Obama riuscirà a dare maggiore efficacia alla politica estera americana.
Nei deserti rocciosi intorno a Sana’a, l’America si gioca una partita decisiva. E’ chiamata a fare quello che sa fare peggio: sostenere regimi fragili e non completamente leali o pienamente affidabili, eppure comunque disposti a collaborare nella lotta contro i qaedisti e i loro emuli, a condizione, ovviamente, di riuscire a sopravvivere. Si tratta di regimi spesso caratterizzati da un insoddisfacente pedigree democratico, non necessariamente in sintonia con il disegno dell’avanzamento della libertà come ricetta per un futuro di pace, prosperità e sviluppo: ideologicamente più prossimi al fondamentalismo islamista che ai principi cari a Thomas Jefferson, Benjamin Franklin o James Madison. Eppure sono proprio questi i regimi la cui sopravvivenza e la cui «alleanza» è cruciale per vincere la guerra al terrorismo, comunque la si voglia combattere e chiamare.
Saper riconoscere i «grigi» e capire come servirsene. Si tratta di una vera e propria «rivoluzione culturale», rispetto al mondo in bianco e nero descritto e interpretato dall’amministrazione di George W. Bush. Ma costituisce anche un superamento definitivo della logica della Guerra Fredda, con la sua separazione semplice eppure efficace tra Est e Ovest, e persino una consapevole presa di distanza da una concezione tradizionalmente molto radicata nella cultura politica americana. Lavorare con i grigi, con le sfumature, è quello che gli americani son sempre stati meno capaci di fare. E non perché siano sciocchi, rozzi cow boys (come piace pensare a un certo antiamericanismo snob), ma perché da quando l’America si è affacciata al mondo ha sempre avuto il privilegio di doversi confrontare con nemici inconsistenti o di avere a disposizione risorse (non solo materiali) soverchianti e pressoché infinite. Sono implacabili con i nemici e generosi con gli amici, gli Stati Uniti, come hanno bene imparato gli europei e i giapponesi nel corso del secolo scorso. Ma sono in enorme difficoltà a trovare il modo di intessere relazioni reciprocamente vantaggiose con quelli che sfuggono a una categorizzazione così netta. Al punto che talvolta sembrano preferire spintonare (si direbbe «ruzzare») i grigi fino a farli diventare neri, così da avere una strategia chiara (anche se non sempre efficace o vittoriosa) con cui affrontarli. È quel che è successo con Cuba dopo la rivoluzione di Fidel Castro e tante altre volte in America Latina. Con un nemico resta aperta l’opzione militare: in fondo, i nemici li puoi sempre bombardare, o puoi fomentare o auspicare un «regime change»…
Ma dall’Iraq all’Afghanistan, gli Usa stanno sperimentando che il cambiamento di regime li trasforma nei garanti diretti dell’ordine, della sicurezza e del benessere dei Paesi una volta nemici per un periodo che può durare anche più di un decennio. Fino a quando il nuovo regime non si attesta, magari esibendo caratteri ben diversi da quelli sperati, l’America resta responsabile dello sfacelo quotidiano, nel perdurare della corruzione, della violenza, dell’illegalità e della miseria. Senza contare che è estremamente difficile che i nuovi regimi possano diventare partner regionali e interlocutori responsabili di Washington, dal cui appoggio quanto più dipendono tanto più si mostrano insofferenti.
Meglio, molto meglio, non dover arrivare a tanto, e cercare di sostenere lo Yemen e il Pakistan, che ritrovarsi imbarcati in un altro Afghanistan o in un nuovo Iraq. Anche perché sempre di più sarà dal successo nelle «zone grigie» del mondo che dipenderà il perdurare del ruolo internazionale dell’America. E proprio in quelle zone grigie sarà decisivo trovare e rafforzare interlocutori cointeressati ad alcuni degli obiettivi americani (e occidentali), senza che necessariamente ne condividano tutti i principi politici. Un’impresa estremamente ardua, non c’è dubbio, ma anche un cimento degno di un premio Nobel per la pace.
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