WASHINGTON Fu quel ragazzo che sognava i grandi campi di segale in mezzo al deserto di New York, fu il giovane Holden Caulfield, a farci amare l’ America come nessuno era mai riuscito a farcela amare, con l’ arma irresistibile della verità. Quando Jerome David Salinger, il figlio di un ebreo venditore di “delicatessen” kosher e di una cattolica irlandese morto mercoledì, pubblicò nel 1951 il suo The Catcher in the rye, divenuto da noi, nella intraducibilità del titolo, Il giovane Holden, erano, per l’ America fresca di trionfi militari, di muscoli industriali e di primazia politica, i migliori anni della loro vita. Se nubi c’ erano, nel cielo a stelle e strisce, erano lontanissime, nella Corea in guerra, nell’ Europa orientale sovietizzata, nel Sud segregato e imbavagliato nel silenzio degli innocenti. Era, per noi dall’ altra parte dell’ oceano, l’ America del 18 aprile 1948 ancora fresco nella memoria dei nostri padri, della “scelta di campo”, rossi o blu, croce o falce, rivoluzione o scomuniche, Dio ti vede, Stalin no. Americam Dream. Tutto andava bene, tutto doveva andare bene, nei grandi musical hollywoodiani e sui palcoscenici di Broadway sempre a lieto fine, nella Alice di Disney che correva nel Paese delle Meraviglie, nei mostri di latta dalle enormi pinne che Detroit vomitava per soddisfare la voglia di prosperità sfacciata e non di più carri armati. Era il grande “Dream” delle prime “cucine americane” che agitavano i sogni delle casalinghe ancora prigioniere delle tinozze e delle stufe, mentre le “bombshell”, le Rita Hayworth, le Ava Gardner, le Rosalynd Russel, turbavano i sogni dei loro mariti. Poi, nell’ agosto del 1951, per lo scandalo dei recensori perbenisti e timorati di Dio che rabbrividirono perché avevano letto quella verità che sulle tavole di Norman Rockwell non poteva essere dipinta, uscì il piccolo libro che avrebbe spalancato la finestra sul vuoto che c’ era all’ altro lato della parete. Ma «colui che afferra nel campo di segale», come racconta il titolo alludendo al sogno di Holden che vorrebbe salvare bambini dal precipizio afferrandoli mentre corrono tra le spighe, non sarebbe stato il tornante decisivo della strada che portò tanti di noi a innamorarsi dell’ America intera, e non soltanto di quella della propaganda, se non avesse aperto molto più di una finestra sulla società americana. J. D. Salinger, l’ ex fante che aveva combattuto sul fronte occidentale, che aveva incassato il trauma incancellabile e allora non riconosciuto della guerra, aprì una finestra dentro tutti gli adolescenti, i “teen ager” si sarebbe detto poi, che lo lessero e che lo avrebbero letto nei 65 milioni di copie tradotte in tutte le lingue. Holden eravamo noi, o segretamente sognavamo di essere, per sentirci più importanti. Se anche la grande, onnipotente America portava nell’ anima dei suoi ragazzi le stesse angosce, lo stesso vuoto, la stessa paura di sé e degli adulti, forse eravamo tutti “allright”, tutti “cool”, tutti OK e nessuno solo. Oggi che l’ opera quasi unica, si potrebbe dire, di quello scontroso misantropo che scriveva laboriosamente ogni mattina tra nevi e betulle del New Hampshire, non lontano da dove si era rifugiato Solgenitsin, nella speranza di non essere pubblicato, per la pura gioia disperata dello scrivere, è divenuta fin troppo “emblematica”, come vuole una logora parola, è facile dimenticare lo shock che essa rappresentò, in quella decade Cinquanta. In apparenza furono le parolacce volgari, le situazioni squallidamente osé come il disastroso incontro con una prostituta del bravo ragazzo di buona famiglia allevato nelle migliori scuole private, il sesso, la violenza, il nichilismo che pervade il libro a turbare i benpensanti e i parrucconi del tempo. Ma quella brutalità scandalosa che sarebbe in pochi anni divenuta banale e timida lettura per studenti liceali esposti a ben altro dall’ industria dello spettacolo, era soltanto l’ apparenza, il guscio. La sostanza imbarazzante per gli adulti, e quindi adorabile per coloro che temevano, e temono, di diventarlo, era la visione della ruggine sotto la lamiera luccicante. Il vuoto nel cuore della prosperità post bellica. Quel 1951 fu l’ anno che vide l’ esplosione dei sobborghi lontani prodotti in serie, le “Levittown”, dal nome del primo costruttore che la lanciò in Pennsylvania, Levitti, nella monotonia soffocante di miglia e miglia di casette identiche, vendute per 10 dollari di caparra e 90 al rogito, più i comodi mutui, punteggiate di biciclettine e tricicli abbandonati davanti ai garage, di “papà so tutto” con bacetto alla moglie prima del viaggio verso il lavoro, tutti alla stessa ora, tutti davanti allo stesso televisore, tutti abbigliati con lo stesso completo business e il Borsalino, nel deserto di una solitudine collettiva grassa e divorante. Era il tempo di Eisenhower, il liberatore dell’ Europa, di Lucy e io, trasmesso proprio a partire da quel 1951, dove era proibito mostrare in tv un letto matrimoniale anche per le coppie sposate e pronunciare la parola “divorzio”, figuriamoci “aborto”. Nell’ atollo di Eniwetok, lontano nel Pacifico, esplodeva la prima bomba termonucleare, i bambini guardavano gli spot governativi di “atomino”, il benevolo neutrone che avrebbe illuminato la nazione e l’ avrebbe protetta dai nemici, anche se le maestre dovevano fare esercitazioni quotidiane insegnando agli scolaretti ad accovacciarsi sotto i banchi, caso mai atomino esplodesse nei paraggi. Non poteva essere del tutto vera, quell’ America di atomino e delle Levittown, e Salinger ce lo spiegò, magari dieci anni dopo, il tempo necessario perché un editore italiano lo acquistasse e lo traducesse a Torino. Non lo fece con la violenza ideologica di un Michael Moore, o con la foga immaginosa di un Oliver Stone, e l’ Apocalisse nella giungla di Francis Ford Coppola era ancora lontane. Ce lo spiegò guardandosi dentro, nel buio, nella angst che la prosperità genera in adolescenti che non sanno come affrontare un mondo troppo bello per essere vero, lasciato dai loro genitori e non sanno come, e a chi, dirlo. Un abisso scuro e pericoloso, dal quale lo avrebbe estratto Mark David Chapman, 30 anni dopo, il giorno 8 dicembre del 1980, per uccidere John Lennon, in quella stessa Manhattan dove Holden Caulfield era naufragato. La polizia lo avrebbe fermato mentre, a omicidio fatto, leggeva Salinger. Era profondo, il buio illuminato per un attimo, dal figlio del bottegaio ebreo e della cattolica irlandese, morto vecchissimo, a 91 anni. Morto ragazzo a 91 anni. – VITTORIO ZUCCONI
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