The War in Hollywood

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BENVENUTA «Apocalypse Now», apocalisse è bello. Il film che nessuno ha visto e ha ricevuto il massimo onore che un film possa ricevere è la fine dell’ America che si vergogna delle proprie guerre sporche. Èqualcosa che soltanto una donna regista, una persona che non ha mai vissuto una guerra, poteva realizzare perché nessun uomo avrebbe mai avuto il coraggio di ammettere la impronunciabile verità. La eterna seduzione tossica che la guerra esercita sugli uomini, da Caino in poi. Con questo crudele, violento, onesto “Hurt Locker”, quasi un film clandestino, a basso budget (appena 14 milioni di dollari, un ventesimo del costo di Avatar), ignorato dal pubblico americano e internazionale come sono stati ignorati tutti i film sulla guerra in Iraq, anche la cattedrale della correttezza politica, degli “happy ending” e dei buon sentimenti. L’Accademia di Hollywood, si è arresa. Ha detto che l’America di “Apocalypse Now”, del “Cacciatore “, di “Platoon”, del “M.a.s.h” di Altman, tutti premiati come migliori film, di “Full Metal Jacket” o del “Soldato Ryan”, coperti anche loro di Oscar secondari e di nomination, l’America dell’antimilitarismo da “Comma22 ” costretta a correre a ritroso nel passato, in Normandia o a Iwo Jima per ritrovare il senso delle “giuste guerre” e della “grande generazione”, è cambiata. Ed è stato quell’evento spartiacque che il film non nomina mai, e che pure incombe dietro tutte le esplosioni, le budella, le carneficine, cioè l’11 settembre, a cambiarla. Ora deve rassegnarsi a guardare in faccia ciò che l’invasione, la liberazione e l’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan l’hanno fatta diventare: una nazione che ha paura di dare giudizi morali sulle guerre che combatte, che riduce tutto al minimo del soldato solo davanti alla bomba, perché non è più tanto certa di essere nel giusto e le combatte non soltanto perché le è stato ordinato di farlo dal “Commander in Chief” di turno, sia esso un Bush o un Obama. Ma perché, come il sergente artificiere che disinnesca le mine improvvisate, non può più farne a meno. La guerra, la semplice brutalità dell’uccidere o del restare ucciso, è una droga più intossicante di ogni stupefacente. Il vizio assurdo e inestirpabile che una generazione si è iniettata dopo l’11/9, senza vaccini critici assunti per tempo. Talmente brutale e moralmente agnostico è il film che Kathryn Bigelow l’ex moglie del regista di super polpettoni hightech James Cameron l’autore di Avatar, ha creato, che persino i veterani, i reduci, i mutilati dal fronte iracheno lo hanno sconfessato e rifiutato come “assurdo “, “inventato”, “inverosimile ” quasi che anche loro, i prigionieri di quel “locker”, di quell’armadietto della sofferenza, dell'”hurt”, avessero paura di scoprire che cosa erano diventati e come la guerra li avesse stravolti. Sono stati i critici, gli intellettuali di ogni colore, dalle pagine del New Yorker o da siti web come l’Huffington Post, il pubblico del Festival di Venezia 2008 con il suo lungo applauso (dieci minuti ufficiali) a riconoscere in questo “Hurt Locker” la profondità dell’abisso individuale in cui la “guerra al terrore” ha spinto i propri soldati volontari. La parentesi autocritica e autoironica aperta fra gli anni ’70 e ’80 da Coppola, da Kubrick, da Stone, da Cimino, e già prima dalla tragicommedia di Robert Altman nel suo “M.a.s.h. “, si è chiusa domenica notte a Hollywood, con il film della Bigelow, basato sul resoconto di un giornalista incastrato, “embedded” nel gergo del Pentagono, con un’unità al fronte. Non c’è retorica anti militarista né bellicista, non ci sono prediche di burbanzosi neo-con decisi a combattere con la vita degli altri al sicuro nei loro “think tank” con l’aria condizionata a Washington né sermoni di oratori da campus pacifista. La gratuita demenzialità della guerra, riassunta nel “Comma 22” o negli ospedali da campo di “M.a.s.h. “, il senso dell'”orrore” mormorato dal colonnello Kurtz rinchiuso nel suo apocalittico cuore di tenebra, le inutili stragi per conquistare le “Hamburger Hill” subito abbandonate, scompaiono, nelle strade di Anbar, di Falluja, di Bagdad, battute dal sergente artificiere in lotta contro armi rudimentali e micidiali, così diverse da quegli arsenali mostruosi inventati dalla propaganda di Bush e Cheney per mandarcelo. Ma non c’è neppure quell’effetto di revulsione, quell’antidoto del ridicolo mescolato al tragico, che costringe a riflettere di fronte ai soldati surfisti di Francis Coppola, all’ascolto del coretto insolente di “Topolin Topolin” che chiude “Full Metal Jacket”, alla bassa macelleria dei chirurghi da campo tra partite di golf e scherzi goliardici alle infermiere sotto la doccia. Il sergente artificiere che si muove con la furia dissennata e lucida del tossico fra bambini bomba, mine nella polvere, trappole ad alto esplosivo, vestito come un astronauta nella tuta protettiva, non esporta la democrazia, non combatte le crociate dei valori occidentali, non spinge bandiere a stelle e strisce sulla vetta del monmonte Suribachi a Iwo Jima. Non sogna neppure la “fidanzata lontana ” e la casetta nella prateria dove la mamma dei fratelli Ryan si torceva le mani aspettano la notizia di un altro dei suoi figli caduti. Anzi, nella propria casetta, il sergente nella polvere non riesce più a vivere, dopo avere assaporato il gusto dell’inferno, di quella guerra che rende ogni altra attività umana, insipida e inutilmente complessa al confronto. Ci vuole tornare. Lui, più ancora delle file di croci bianche nelle colline di Arlington sopra Washington, più delle bare di metallo che continuano a essere scaricate dai C130 e dai C5 nell’obitorio militare di Dover nel Delaware, è la vera generazione perduta nei sedici anni di guerra complessiva, fra i nove in Afghanistan e i sette in Iraq dove si votava tra le esplosioni proprio domenica. Proprio nel giorno in cui Hollywood premiava il primo film spietatamente onesto sul prezzo pagato per eleggere un parlamento a Bagdad, del quale all’America ormai importa nulla, proprio ora che potrebbe proclamare davvero, non con le smargiassate del politico, qualche “missione compiuta”. La Bigelow ha doverosamente ricordato e ringraziato gli uomini e le donne americani che si sono sacrificati, e ancora si sacrificano, oltremare, aggiungendo di sperare che ora il suo film trovi finalmente un distributore che gli permetta di guadagnare più dei 19, miserabili milioni di dollari, incassati in un anno, un decimo di quanto l’ultimo filmone in 3D, “Alice nel Paese delle Meraviglie ” ha raccolto soltanto in questo week end, 159 milioni. Si può seriamente dubitare che accada, perché l’America che aveva esorcizzato il demone del Vietnam dieci anni dopo, andando a vedere “come era stata” per illudersi di non esserlo più, non sembra avere nessuna voglia di andare a vedere come è diventata. Come è ora e che cosa ha fatto ai propri figli, chiusi nell’armadietto di ferro della guerra. Un’America che si premia, ma non si piace. – VITTORIO ZUCCONI

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