I dieci minuti da brivido vissuti dalla Borsa di New York la settimana scorsa sono una storia degna delle penne di Franz Kafka, Agatha Christie e Mary Shelley: un giallo surreale che ha messo a nudo i difetti di un sistema che tutti pensavano quasi perfetto.
I fatti sono noti. Un bel pomeriggio primaverile, l’indice Dow Jones ha perso il 10% prima di rimbalzare in maniera altrettanto violenta e chiudere in lieve perdita.
Il problema è che, a dieci giorni da quel crollo improvviso, nessuno è riuscito a rispondere alla domanda che uno dei miei colleghi mi ha posto non appena ho messo piede in ufficio dopo un pranzo di lavoro alle 14,31 di quel fatidico giovedì 6 maggio. «Come mai?».
Investitori grandi e piccoli, da Syracuse nello Stato di New York a Siracusa in Sicilia, hanno perso miliardi di dollari quando il più grande mercato azionario del mondo si è trasformato in un enorme yo-yo ma il governo americano, le banche d’affari e gli operatori di Borsa ancora non sanno cosa sia successo.
Un veterano dei mercati americani, la cui voce ancora tremava a raccontare il giovedì nero, ha fatto un’analogia interessante e preoccupante. «Pensa che cosa succederebbe se le autorità non dicessero assolutamente nulla dopo un incidente aereo: questo silenzio istituzionale è terrificante». I soliti ben informati parlano di un errore grossolano di un operatore con «le dita grasse» – uno che voleva vendere un po’ di azioni e ha scritto «miliardi» invece di «milioni» sulla tastiera. Altri danno la colpa ai super-computer che dominano le Borse americane ed europee, cervelloni che comprano e vendono titoli ad una tale velocità che nessun essere umano li può frenare. Gli pseudo-psicologi, invece, parlano dell’insicurezza cronica di mercati che per mesi hanno dovuto digerire le cattive notizie provenienti dalla Grecia e altri Paesi del vecchio Continente.
Ma anche se tutte queste ragioni fossero vere, la Borsa di New York dovrebbe avere regole ed infrastrutture che non le permettono di comportarsi come un adolescente con la passione per il bungee-jumping. La vera perdita subita dai mercati americani è molto più grave dei passivi finanziari di migliaia di investitori. In quei 600 secondi di fuoco, la Borsa più famosa del mondo ha perso il diritto ad essere il faro del capitalismo internazionale, il metronomo che batte il tempo per l’economia mondiale.
Prima o poi, le perdite del Dow, del Nasdaq e la miriade di piccole Borse che sono colate a picco in quei dieci pazzi minuti verranno recuperate. La legge del mercato è simile alle storie d’amore raccontate da Lucio Battisti quando cantava, in Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi, di «discese ardite e risalite/ su nel cielo aperto/ e poi giù il deserto/ e poi ancora in alto/con un grande salto». L’unica certezza nel mondo arcano della compravendita di azioni è che un mercato ribassista – o «mercato dell’orso» nel gergo anglosassone – è sempre seguito dal mercato «del toro», in cui gli indici salgono e gli investitori guadagnano, e viceversa.
Perdere la faccia, però, per una Borsa che dipende dalla fiducia di investitori e operatori è un po’ come perdere la verginità: non si può più tornare indietro. Come ha detto Larry Tabb, uno dei santoni dell’analisi finanziaria made in Usa: «Non è tanto che non sappiamo esattamente cosa sia successo ma che sappiamo fin troppo bene che la liquidità di mercati che pensavamo solidi e robusti è evaporata in un battibaleno».
E se le Borse di Londra, Hong Kong e Tokyo – le grandi rivali di New York – pensano di poter approfittare delle disgrazie altrui, si sbagliano di grosso. La débâcle di Wall Street ha avuto ripercussioni in tutto il mondo (persino il petrolio, quotato a Londra, è sceso velocemente quel giovedì pomeriggio) ed investitori che sono stati bruciati sul mercato-guida non si sposteranno sicuramente su Borse più rischiose e meno liquide.
Gli operatori newyorchesi, quantomeno quelli seri e intelligenti, hanno capito subito la gravità della situazione. Le mie spie nella sede del New York Stock Exchange (Nyse) – il palazzone neo-classico che domina l’angolo tra Wall Street e Broad Street sulla punta di Manhattan – mi hanno detto che il baccano caotico della sala di contrattazione si è trasformato in un silenzio di tomba quando il Dow è incominciato a crollare. Nelle sedi delle banche d’affari, operatori che ne hanno viste di tutti i colori sono rimasti sbalorditi. «Non c’era nulla da fare: sono rimasto lì, con la bocca aperta, fissando uno schermo che è diventato tutto rosso», mi ha detto uno dei più esperti traders di una banca americana. In quindici anni di giornalismo finanziario su tre continenti non mi era mai capitato di sentire una confessione d’impotenza così sincera e disperata.
Il motivo per cui gli operatori sono passati da protagonisti a spettatori delle convulsioni del mercato è dovuto alla rivoluzione tecnologica e strutturale delle Borse americane negli ultimi decenni. L’invenzione di computer sempre più potenti ha trasformato il modo in cui gli investitori interagiscono con i mercati. Fino alla metà del XX secolo, la Borsa di New York ha funzionato più o meno come era stato deciso nel 1792 nell’«Accordo del Platano» – il patto tra 24 brokers riuniti sotto un albero vicino a Wall Street che creò il nucleo del primo Stock Exchange.
L’avvento dei super-computer ha fatto sì che il mercato fosse in grado di trattare molte più azioni, molto più velocemente e a prezzi così bassi (il costo-base di una transazione è passato da una media di 12 cents a meno di 1 cent) da permettere a milioni di risparmiatori di giocare in Borsa. La «democratizzazione» del mercato è avvenuta a spese degli operatori. Se le casalinghe del Wyoming potevano comprare General Electric e Ibm dalla camera da letto con un click del mouse, che bisogno c’era di tutti quei signori in giacche sgargianti che urlavano numeri e sgomitavano di fronte a un tabellone pieno di cifre? E così, negli ultimi dieci anni, gli esseri umani – i rumorosi, costosi e fallibili esseri umani – sono stati esclusi dal tourbillon finanziario che chiamiamo mercati. Oggigiorno, più del 90 per cento degli ordini eseguiti al New York Stock Exchange sono automatizzati.
Allo stesso tempo, i prezzi relativamente bassi delle nuove tecnologie hanno facilitato la nascita di mercati alternativi al vecchio Stock Exchange. Banche d’affari hanno creato «stagni scuri» – mini-borse che permettono ai loro clienti di comprare e vendere azioni in privato senza rivelare il prezzo ai loro rivali. Altri operatori di mercato – come il Nasdaq, che un tempo era dedicato a società di tecnologia e telecomunicazioni – hanno approfittato del progresso tecnologico per offrire azioni trattate sul Nyse.
Il risultato è stato una frammentazione che rende praticamente impossibile – a regolatori, investitori e operatori – avere una visione completa dei mercati. Nel 2009, solo il 13 per cento del volume di mercati è passato attraverso il Nyse.
Come se non bastasse, la possibilità di fare soldi (moltissimi soldi) usando computer per sfruttare piccole discrepanze di prezzo tra un mercato e l’altro ha spinto generazioni di laureati in matematica e fisica a creare algoritmi complicatissimi da applicare alla compravendita di titoli. La velocità con cui questi fondi «algos» agiscono li ha trasformati nei re del mercato. In un giorno normale, questi investitori senza faccia e senza una strategia chiara muovono circa due terzi del volume dei mercati americani.
La mancanza di regole comuni tra tutti questi attori è una delle ragioni del crollo del 6 maggio. A differenza del Nyse, per esempio il Nasdaq non ha un meccanismo per «rallentare» il mercato quando gli indici calano – una differenza che ha permesso ad investitori che volevano vendere a tutti costi di disfarsi di titoli a prezzi bassissimi. E mentre gli operatori del Nyse sono obbligati a ricevere ordini in tutte le condizioni, gli «algos» possono ritirarsi dal mercato in momenti di crisi – un fattore che ha fatto evaporare la liquidità ed esacerbato la caduta del Dow.
La confluenza quasi miracolosa di tecnologia e cervelloni (sia computerizzati che umani) ha portato dei vantaggi immensi ai mercati Usa, contribuendo alla crescita del settore bancario americano e consolidando la posizione di New York come capitale della finanza mondiale. Ma ha anche dato origine un sistema così astruso e complesso che è impossibile da sorvegliare e che non può essere fermato quando diventa ingestibile. Come con la crisi dei mutui subprime, la passione di Wall Street per creare prodotti nuovi e lucrativi ha creato un mostro che i suoi stessi artefici non sono più in grado di controllare.
Invece di fissare quegli schermi verdi e rossi, gli operatori dovrebbero rileggersi «Frankenstein» – il capolavoro della Shelley – al più presto.
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