La caricatura dei tea party si arricchisce di un nuovo elemento: oltre a essere brutti, razzisti, ignoranti, estremisti e fascisti, neppure credono nel riscaldamento globale – e dunque sono infedeli da mandare al rogo. L’ennesimo stigma viene appiccicato sulla pelle dei tea-partisti da una storia di prima pagina del New York Times, che da qualche settimana reagisce alla teiera a stelle e strisce allo stesso in modo in cui il toro di fronte al drappo rosso. Sicché basta raccogliere qualche intervista un po’ surreale tra i militanti durante una manifestazione (il global warming “è una menzogna”, per l’elettricista Norman Dennison, “è semplicemente ridicolo”, per una tale Kelly Khuri) per arrivare alla conclusione senza passare dal via. Da lì in poi il passo è più scontato che breve.
Quello che il quotidiano americano non dice è che, dietro il folklore, che non è nello schieramento dei tea party più forte che altrove ma solo più politicamente scorretto, si nasconde una lettura del problema assai realista. Gli Americans for prosperity descrivono non già il cambiamento del clima, ma il “climate bill” di Barack Obama come “the largest excise tax in history”, cosa che probabilmente non si allontana molto dal vero (o magari lo sottostima). Freedom Works, vittima ieri di un attacco hacker, lo definisce “power grab”, e spiega: “qualunque sforzo di rendere l’elettricità e i carburanti più costosi o di limitare o regolamentare la CO2 non farà altro che esacerbare una situazione già critica e causare un tremendo danno economico”. Naturalmente, tutto questo si spiega solo coi “soldi dell’industria petrolifera”, secondo il Nyt, che in tal modo pecca due volte. Perché, se è vera la tesi marxiana per cui sono gli interessi che muovono la storia, allora è vera per tutti: e, così come i tea party riflettono gli interessi dei petrolieri, allora i fautori delle politiche climatiche rappresentano a loro volta altri interessi particolari – non necessariamente più virtuosi (lo straordinario film di Jason Reitman, “Thank you for smoking”, spiega molte cose, a questo proposito). Ma il Nyt pecca, soprattutto, perché rigettare a priori le tesi del supposto avversario è una manifestazione di enorme debolezza intellettuale, che non può che portare a conseguenze politiche deludenti.
Tra l’altro, la critica alle logiche “kyotiste” contrasta con l’immagine che lo stesso Nyt (e i suoi fiancheggiatori) hanno cucito addosso ai tea party: quella del “populismo di destra”. Il Foglio ha già spiegato perché questa è una lettura distorta. Ma oggi ne abbiamo la conferma. Non c’è, in questo momento, un populismo più facile e sciatto di quello climatico: “tutti sanno che” il clima sta cambiando, che cambia per colpa delle multinazionali occidentali, e dunque le multinazionali devono pagare. Mettere in dubbio quel che “tutti sanno” equivale a prendere una posizione critica, sofferta, anticonformista. Che poi questo possa sfociare in semplificazioni eccessive o in un populismo di senso contrario è un altro discorso, sicuramente valido, ma certamente marginale.
Perché quello a cui siamo di fronte è un tentativo di imporre un’adesione settaria alla religione del clima – laddove il dogma più radicato e profondo non è né l’aumento delle temperature né, a ben guardare, la più o meno vasta responsabilità umana. Il corpo mistico della chiesa verde è l’attesa fideistica che la burocrazia, lo statalismo e le venerate istituzioni internazionali ci salveranno dai nostri peccati, ci forniranno l’arca con cui ci salveremo dal diluvio universale. Chi non crede, è un peccatore. Ma è un peccatore che, alle elezioni di midterm, metterà una croce sul tentativo obamiano di europeizzare l’America. E dunque, in fin dei conti, è un peccatore che, nonostante la scomunica del Nyt, se la ride sotto i baffi.
Leave a Reply
You must be logged in to post a comment.