The Right to Know

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FINITA la fase concitata e nebbiosa dell’azione militare contro il generalissimo di un esercito nemico invisibile e implacabile, viene sempre, nella storia delle grandi democrazie, il momento delle spiegazioni e dei dettagli. Questo momento è arrivato anche per l’America di Barack Obama che infatti da quattro giorni si tormenta nel dilemma se diffondere o tenere nascoste le foto orribili dell’uccisione di Bin Laden.

E se non ci possono essere dubbi razionali o ragionevoli sulla morte dell’ispiratore di dozzine di massacri di vittime innocenti nel mondo sapendo qualche disastro epocale sarebbe l’avere mentito, i dubbi sui modi e sull’esecuzione di quell’attacco non possono restare appesi a fermentare nella coscienza internazionale.

Hanno molte buone ragioni il segretario di Stato Clinton, il ministro della Difesa Gates, il nuovo direttore della Cia Panetta e lo stesso Obama nel non voler mostrare le immagini del corpo di Bin Laden raggiunto dai colpi dei commando alla testa, distrutta dai proietti di specialisti d’assalto ai quali viene insegnato proprio a mirare al volto, per non lasciare scampo. Il brivido di orrore e di istintiva “pietas” che proveremmo per un essere umano maciullato, anche di chi scelse di chiamarsi fuori dal “circolo della vita” e di scegliere la predicazione della morte violenta propria e altrui come autostrada per il paradiso, scatterà in chi le vedrà. Così come sarà inevitabile che quelle immagini macabre divengano un’icona truculenta per gli apostoli del terrore.

Le fotografie

sono state già mostrate a senatori e deputati, dunque ai rappresentanti eletti direttamente e individualmente, negli Usa, per nome e cognome e non per pacchetti preconfezionati di partito, dal popolo americano e chi le ha viste ha già dichiarato di non avere dubbi sull’identità del morto.

Ma questa garanzia indiretta e credibile, in un’America dove l’opposizione a Obama si è crogiolata per anni nella favola della sua illegittimità per nascita e sarebbe felice di poter sollevare dubbi e distruggere un Presidente che oggi vola altissimo, non può bastare per quell’opinione pubblica mondiale che non dubita della sua parola.

Chi si rende conto che nessun capo di Stato potrebbe reggere per un minuto a una menzogna tanto enorme e chi sa quale sia senza esitazione “la parte giusta” dalla quale stare anche nella lotta sporca e sordida al terrorismo, ricorda che la forza delle nazioni libere non sta nei cannoni o nei suoi commando superaddestrati. Sta nel principio di “accountability”, di responsabilità e di rendiconto pubblico e aperto delle proprie azioni e delle proprie scelte.

Questo è il dilemma che tormenta l’Amministrazione Obama. Continuare a nascondere quelle foto per pudore e per rispetto delle “sensibilità altrui”, come dice la Casa Bianca, o offrire spiegazioni esitanti e rateizzate e spesso contraddittorie, alimenta il falò delle assurdità che già si è acceso attorno all’assalto e all’esecuzione di Bin Laden. Soffia sulle fiamme accese dall’insoppribile odio per l’America, residuato acre del fallimento “realsocialista”, e soprattutto dalle troppe menzogne che il predecessore di Obama, George W. Bush ci somministrò per giustificare l’invasione dell’Iraq. Producendo quell’indimenticabile e grottesca testimonianza del generale Powell davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che più tardi – troppo tardi – lo stesso Powell definì “il giorno più umiliante” della sua vita. Di questo tremendo precedente, come delle bugie sul falso incidente del Tonkino, che Johnson utilizzò per ottenere l’ok parlamentare alla guerra in Vietnam e tormentò per una generazione l’immagine degli Stati Uniti, Obama deve tenere conto. La “parola di re”, per quanto nobile sia il re, non basta più a tacitare tutti, nel tempo dell’informazione e della disinformazione planetarie e istantanee.

Ma anche la scelta opposta non convincerebbe gli scettici a priori, i teorici della “conspiracy” che ancora dubitano dello sbarco sulla Luna che pure fu seguito metro per metro dalla telemetria sovietica o sono certi che nel deserto del New Mexico sia precipitata un’astronave extraterrestre e i resti degli alieni siano gelosamente nascosti dal governo americano. Non può essere questa impossibilità di persuadere gli irriducibili ciò che può risparmiare al presidente Obama una più minuziosa ricostruzione dei tempi, delle procedure e dei fatti in quella domenica di maggio perché sono coloro che credono alla sua parola, alla forza della democrazia americana in tutte le sue imperfezioni e alla crudele, ripugnante inevitabilità della fine violenta di Osama a domandarglielo.

Nei propri momenti più alti e ammirevoli, l’America ci ha viziato. Ha spiattellato al mondo tutti i propri errori, pubblicando verbali di registrazioni riservatissime, diffondendo documenti segreti molto prima che cominciasse l’età di WikiLeaks, intercettando e frugando nella privacy più intima del primo cittadino, nel nome di un semplice e formidabile principio ancora non assimilato in democrazie più deboli: quello secondo il quale nessun leader politico è più importante della Costituzione e la sopravvivenza delle istituzioni, non il consenso politico o i sondaggi ondivaghi, è il fondamento sul quale si regge una società.

In questo, che è il momento più incandescente e nodale del XXI secolo perché rappresenta la chiusura simbolica – non ancora purtroppo reale e definitiva – del dramma cominciato dieci anni or sono a New York ed è la prova finora più importante per Obama, il presidente che aveva riacceso anche negli scettici e nei delusi dall’estremismo bushista le speranze nell’eccezionalismo positivo americano, non può tradire le attese.

Come si è, a ragione, ammantato della gloria e della popolarità incassate nell’ora del giubilo nazionalistico e patriottico, ora si deve fare carico delle procedure, delle decisioni, delle responsabilità e dei contraccolpi.

Nella civiltà della immagini, non si può restare senza immagini senza generare mostri, sapendo che comunque potranno affiorare o, peggio, essere falsificate da mani interessate a screditarlo. La trasparenza è il prezzo durissimo che le democrazie vere pagano a se stesse, per restare tali.

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