Quando invase l’Iraq, nel 2003, George W. Bush credette che gli americani sarebbero stati accolti come liberatori e annunciò la fine della guerra, poche settimane dopo, di fronte a una scritta che proclamava al mondo: «Missione compiuta». Il presidente riteneva che il conflitto fosse giustificato dai legami di Saddam Hussein con il terrorismo islamico e dall’esistenza di armi chimiche e nucleari, di cui il dittatore avrebbe potuto servirsi contro il «mondo libero». Nessuna di queste affermazioni era vera. Non erano veri i legami con Al Qaeda, non esistevano armi di distruzione di massa, gli americani erano «liberatori» soltanto per una parte del Paese e la guerra, quando finalmente Bush uscì dalla Casa Bianca, non era finita.
Il suo successore non ha commesso questi errori. Quando era senatore, si oppose al conflitto. Quando è divenuto presidente ha fatto del suo meglio per pacificare il Paese, ha annunciato che le forze americane avrebbero lasciato l’Iraq alla fine del 2011, ha ora mantenuto l’impegno. Ma le parole con cui, negli scorsi giorni, ha salutato la partenza dell’ultimo contingente militare (lasciamo un Paese «stabile e capace di badare a se stesso») non sono meno sbagliate di quelle con cui il predecessore aveva annunciato la fine della guerra. La storia farà probabilmente qualche distinzione fra gli errori di Bush e quelli di Obama. Ma la società internazionale ignora le sottigliezze degli storici e si limiterà a constatare che l’intera operazione americana in Iraq, dal marzo del 2003 al dicembre 2011, ha reso tutta la regione molto più instabile di quanto fosse alla vigilia del conflitto.
Probabilmente né Bush né Obama hanno prestato sufficiente attenzione alla natura dello Stato iracheno. Il Paese è un artefatto della politica internazionale, una invenzione di Churchill realizzata per le esigenze petrolifere della Royal Navy grazie a un assemblaggio di gruppi etnici e religiosi – arabi sunniti, arabi sciiti, curdi – in cui soltanto i primi, purché al vertice del potere, erano veramente interessati alla creazione di uno Stato unitario. Gli sciiti hanno un forte rapporto religioso con l’Iran e hanno spesso detestato i loro concittadini sunniti più di quanto temessero gli iraniani. I curdi hanno fratelli in Turchia, in Iran, in Siria, e non hanno mai smesso di sognare il grande Kurdistan che i vincitori del 1918 avevano lasciato intravedere alla fine della Grande guerra. Qualche intelligente diplomatico americano ha prospettato l’ipotesi di una federazione, ma non è facile tracciare frontiere là dove esistono grandi risorse naturali e ogni divisione rischia di farsi a spese di qualcuno. Oggi i curdi sono pressoché sovrani nelle loro terre e gli sciiti controllano buona parte del potere a Bagdad. Ma i sunniti si considerano «espropriati» e le loro formazioni più radicali non hanno mai smesso di combattere, se necessario, persino a fianco dei terroristi di Al Qaeda.
La vicenda del vicepresidente sunnita, inseguito da un mandato di cattura e rifugiato nel Nord curdo del Paese, è l’ultima manifestazione di una vecchia reciproca ostilità. Ma è anche l’appendice irachena di una guerra fra sunniti e sciiti che si combatte contemporaneamente in Siria, nello Yemen, nel Bahrein, domani forse in altri Paesi del Golfo Persico. Se questi sono i risultati di una «guerra di liberazione», gli alleati europei dell’America faranno bene a ricordare che la libertà non si esporta sulla punta delle baionette. In Libia, purtroppo, lo hanno dimenticato.
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