Usa2012: Barack e Mitt visti da repubblicani e democratici
Ci sono pochi posti in America più solidamente Democratici di Portland, Oregon, la città degli artisti e degli aspiranti scrittori della costa ovest, immersa negli anni Novanta dell’entusiasmo clintoniano. E perfino qui la prestazione di Obama nel dibattito di mercoledì sera con lo sfidante Repubblicano Romney suscita poco entusiasmo. Nel Centro per la registrazione dei votanti, in periferia, Killingsworth Street, la passione obamiana è assai più forte prima del dibattito che dopo un’ora e mezzo di monologhi intervallati dalle impalpabili domande di Jim Lehrer.
Tra base di Killingsworth street, quasi tutti afroamericani, ex insegnanti in pensione, un veterano, piccoli imprenditori e funzionari locali, si registrano solo un paio di applausi convinti: quando Obama esordisce facendo gli auguri per l’anniversario di matrimonio a Michelle, seduta nella platea dell’Università di Denver, e quando il presidente scandisce guardando in camera: “Se hai 54 o 55 anni forse ti interessa quello che sto per dire”, in risposta a Romney che proponeva di rivedere la riforma sanitaria (“Obamacare, ormai sono un fan di questo nome”, scherza il presidente) per rassicurare chi è già in pensione.
Per il resto anche i militanti sembrano soffrire l’effetto Romney. L’ex governatore del Massachusetts non dice niente di memorabile ma, lì sul palco, accanto a Obama, con una cravatta migliore e un vestito tagliato perfettamente, per la prima volta appare presidenziale. E per quanto possa sembrare assurdo, i Democratici non erano preparati a questo: nell’Obamaworld Romney era già distrutto dalle sue stesse gaffe, vittima dell’inconsistenza delle sue proposte e schiacciato dalla personalità del presidente. Lo dimostra il fatto che Obama, nello stupore nazionale, ha rinunciato a infierire sulla battuta del 47% (in un fuorionda Romney ha detto che quella percentuale di elettori è persa perché i mantenuti dallo Stato votano per Obama), non ha nominato le dubbie performance nel creare lavoro della società guidata da Romney, Bain Capital, e non ha approfittato della tendenza al flip flop, cioè a contraddire affermazioni passate, del candidato Repubblicano. Troppa leggerezza ? Parrebbe di sì, lo stratega elettorale democratico David Plouffe si è giustificato dicendo che punti come il “47%” erano già noti a tutti e non era necessario sottolinearli.
Risultato: Obama è costretto dal ruolo a giocare in difesa, a rivendicare quanto già ottenuto invece che promettere speranza e cambiamento. La sua tendenza a interrompere il moderatore, a non rispettare i tempi, a sogghignare mentre Romney parla non evoca più la forza del sogno, il “Yes we can” del 2008, e tracima nell’arroganza del potere. I dibattiti presidenziali li guardano in tanti, 40 milioni, ma li ascoltano in pochi. E stando ai contenuti la sconfitta di Obama pare molto meno netta. Romney ha confermato la sua fama di “No plan man”, l’uomo senza un piano. Non spiega come vuole cambiare la riforma sanitaria, resta sul vago su come pensa di finanziare gli sgravi fiscali, evita i dettagli su quante regole vuole rimuovere da Wall Street. “Forse i piani di Romney sono così vantaggiosi per le famiglie americane che non si sente ancora pronto a rivelarli”. La battuta di Obama ha il giusto tempismo, ma non basta a salvare una serata storta.
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