U.S. Elections, Lies and Confrontations: The ‘Hopeless’ Road to the White House

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Posted on November 6, 2012.

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La passione del 2008 non c’è più. La candidatura di Obama nel 2012 non ha sollevato le stesse ondate di entusiasmo di quattro anni fa. “Hope” e “Change”, le parole chiave di allora, sono state sostituite da un ben più generico “Forward”, avanti. Tra 48 ore, il risultato finale di una campagna elettorale all’insegna dell’attacco frontale dell’avversario

E’ quasi finita. Dopo quasi due anni di campagna elettorale e 6 miliardi di dollari spesi, tra poche ore sapremo chi sarà il presidente degli Stati Uniti fino al 2016. Secondo tutti i sondaggi tra Barack Obama e Mitt Romney sarà un testa a testa, visto che le ultime rilevazioni danno l’attuale presidente avanti in tre Stati chiave (Ohio, Florida e Colorado) con il 48 per cento dei consensi contro il 47 del candidato repubblicano. Questi sono alcuni dei fatti e delle idee che hanno segnato una delle campagne più brutali della storia americana: quella per le presidenziali 2012.

UNA CAMPAGNA TUTTA “NEGATIVA” – “Ai miei tempi, sarebbe stato impossibile produrre un solo spot che attaccasse l’avversario”. La frase del vecchio presidente Jimmy Carter illustra l’elemento forse più evidente delle presidenziali 2012: il suo carattere violento, aggressivo, brutale. Secondo Wesleyan media project, l’85,5 degli spot elettorali di Obama ha attaccato l’avversario, senza neppure accennare al proprio programma; il 79,2% di quelli di Romney ha fatto la stessa cosa. Obama ha speso 236 milioni di dollari, contro i 110 di Romney, in pubblicità “negativa”. La cifra di Romney diventa molto più alta se si aggiungono le centinaia di milioni spese dai super-Pacs (i political action committee, ndr) che hanno accompagnato la sua avventura elettorale. E’ stata una tempesta di politica partigiana che ha allontanato molti elettori “indipendenti”, che ha indebolito il messaggio di Obama e che ha fatto sperare a milioni di persone che la fine delle presidenziali 2012 arrivasse presto. Nei giorni scorsi ha avuto larga diffusione un video girato dalla mamma di Abigail Evans, una bambina di quattro anni. Abigail piange, dopo aver ascoltato un servizio di NPR sull’ennesimo scontro elettorale, e dice di essere “stanca di Bronco Bamma e Mitt Romney”.

IL POTERE DEI SOLDI – Il denaro “compra” la Casa Bianca. La verità pare ovvia, se si guarda alla montagna di dollari spesi dai due candidati in questi mesi. Sino a fine settembre la campagna di Barack Obama, insieme al partito democratico e a “Prorities Usa Action”, il super Pac più potente a suo favore, hanno raccolto 934 milioni di dollari. Mitt Romney, il partito repubblicano e “Restore Our Future”, il Super PAC repubblicano, ne hanno incassati 881,8. A questi vanno aggiunti altre centinaia di milioni elargiti dagli altri Super Pacs (fondamentali, per Romney, “Americans for Prosperity” e “American Crossroads”) e i finanziamenti fatti affluire dai sindacati e da gruppi come la “National Rifle Association”, la lobby delle armi. Si calcolino, ancora, i milioni spesi dalle centinaia di candidati a Camera e Senato e quelli con cui si sono finanziati i referendum che si terranno il giorno delle elezioni (per esempio, quello sui matrimoni gay in Maryland). Arriviamo a una cifra enorme – 6 miliardi di dollari, secondo Cnn, nella sola campagna presidenziale – e che resterà comunque sconosciuta ai più. L’elemento più inquietante non è infatti la somma, quanto il mistero sulla sua provenienza. La sentenza “Citizens United” della Corte Suprema, nel 2010, ha eliminato ogni limite alle donazioni, permettendo anche che parte di queste, a gruppi secondari che a loro volta finanziano i candidati, restino anonime.

I TEMI – Sotto la valanga di pubblicità negativa, sono emerse in questi mesi due immagini d’America molto diverse. In altre parole. L’America di Obama presidente sarebbe sostanzialmente diversa da quella di Romney presidente. Il candidato repubblicano ha già spiegato che il suo primo atto, da eletto alla Casa Bianca, sarà cancellare la riforma sanitaria di Obama (il piano del suo vice, Paul Ryan, punta a sostituire il Medicare con un programma di voucher). Mentre Obama propone di abolire i vecchi tagli alle tasse per i più ricchi, votati durante l’era Bush, Romney vuole renderli permanenti e pensa a ulteriori sgravi fiscali per singoli e società. Obama è favorevole a limiti alle emissioni inquinanti. Romney si oppone alla “cap and trade legislation”. Obama è a favore della “Roe vs. Wade” e del diritto all’aborto. Romney si oppone (Ryan è contrario all’aborto anche nel caso di stupro o pericolo di morte per la donna). La presenza dell’uno, o dell’altro, alla Casa Bianca, avrebbe ripercussioni anche a livello internazionale. Due esempi. Romney si è più volte dimostrato scettico sulla possibilità di arrivare alla soluzione dei “due Stati” per Israele e Palestina. Il candidato repubblicano ha anche promesso di tagliare i fondi a quelle Ong USA che fanno attività di prevenzione e controllo delle nascite nel mondo.

I GRUPPI – L’America 2012 è un luogo di gruppi etnici e sociali profondamente polarizzati. Romney controlla saldamente il voto dei maschi bianchi (il 56% di quelli con diploma di laurea, il 67% di quelli senza diploma) e degli elettori sopra i 65 anni (anche questi in larga maggioranza bianchi). Con Obama sono gli afro-americani, gli ispanici e le donne, un gruppo che ha sempre favorito i democratici. Obama vinse il voto femminile per 13 punti nel 2008. Bill Clinton per 16 punti nel 1996. Restano gli elettori indipendenti, che nelle scorse settimane parevano preferire Romney – con percentuali superiori al 10% – ma che nelle ultime ore potrebbero essersi riavvicinati a Obama. La gestione dell’uragano Sandy, l’America democratica e quella repubblicana del governatore Christie che lavorano insieme per risolvere le cose, è un tema destinato a risuonare con forza nella testa e nei cuori di questi elettori.

ENTUSIASMO VS. ORGANIZZAZIONE – La passione del 2008 non c’è più. La candidatura di Obama nel 2012 non ha sollevato le stesse ondate di entusiasmo di quattro anni fa. “Hope” e “Change”, le parole chiave del 2008, sono state sostituite da un ben più generico “Forward”, avanti. Alla mancanza di entusiasmo si è cercato di supplire con una straordinaria organizzazione. “La più potente macchina politica della storia”, l’ha chiamata Jim Messina, il direttore del quartier generale di Obama a Chicago. 5000 centri per “get out the vote”, 700 mila bus che hanno girato ininterrottamente il Paese, migliaia di militanti, milioni di telefonate. Questa è stata la campagna democratica del 2012. Questa, sperano Obama e i suoi, sarà la chiave del successo. Restano dubbi e timori, che riguardano proprio l’entusiasmo. L’80% dei repubblicani registrati dice di aver già votato o di votare con assoluta certezza. Soltanto il 70% dei democratici esprime lo stesso concetto. L’affluenza al voto è però essenziale per Obama, soprattutto in un anno segnato dal tentativo dei repubblicani di far passare leggi elettorali che limitano l’accesso alle urne. Il gruppo chiave potrebbe essere quello composta da elettori tra i 18 e i 29 anni, che nel 2008 votarono Obama con un margine del 34% e che devono tornare alle urne, se Obama vuole rientrare alla Casa Bianca.

BILL CLINTON – E’ ormai un ricordo l’acrimonia del 2008 tra l’ex-presidente e il candidato alla presidenza. La dedizione e l’attivismo con cui Bill Clinton ha contribuito alla campagna elettorale di Obama non ha precedenti in nessuna elezione del passato. Dal discorso appassionato alla Convention di Charlotte all’evento-concerto in Ohio con Bruce Springsteen alle decine e decine di comizi in giro per gli Stati Uniti, Clinton è stato il miglior alleato di Obama, l’uomo che ha avuto il compito di colmare il gap che ancora esiste tra il primo presidente nero e operai e piccola borghesia bianca. Si è trattato di un aiuto disinteressato? Forse. Alcuni però già prefigurano il panorama presidenziale 2012, con la possibile (probabile?) candidatura di Hillary Clinton. Tra quattro anni, toccherà allora a Obama restituire il favore ricevuto quest’anno dal marito Bill.

UN SISTEMA CHE NON FUNZIONA – Alle presidenziali 1960, John F. Kennedy visitò 49 Stati. Richard Nixon tutti e 50. Nel 2012, la campagna elettorale si fa ormai in 10 Stati e il resto del Paese non esiste. Questo dipende dalla configurazione demografica degli Stati Uniti. Gli americani con opinioni, cultura, appartenenza etnica simili tendono a vivere vicini. Ciò crea un nucleo di Stati democratici sulle coste e un fortino di Stati repubblicani al Centro e al Sud, dove nessun candidato fa campagna perché sarebbe tempo perso. La battaglia si concentra appunto su dieci Stati, da cui dipendono le elezioni. E’ un sistema che produce frustrazione e sfiducia. Gli americani dei “battleground states” sono destinati a ricevere molta più attenzione – e finanziamenti – da parte del governo centrale. E’ un sistema che va cambiato, ma non si sa come. Un modo potrebbe essere eliminare i collegi elettorali e limitarsi a contare i voti su base nazionale. Il cambiamento richiederebbe però un emendamento alla Costituzione. Più percorribile un’altra soluzione, sponsorizzata dal National Popular Vote. Otto Stati più Washington DC si impegnerebbero ad assegnare la loro dotazione di collegi al candidato che raccoglie più voti su base nazionale. Mentre si discute, la situazione resta paradossale. Ci sono villaggi in Ohio che hanno ricevuto più visite da parte di Obama e Romney che California e New York insieme.

I “PINOCCHI” – Il 2012 verrà ricordato come l’anno in cui i candidati hanno detto tutto e il contrario di tutto per vincere le elezioni. Obama e i democratici non hanno scherzato. Per esempio, quando il presidente ha affermato che il 90% del deficit corrente dipende dalle politiche di Bush (non è vero: il 44% dipende dalle politiche della Casa Bianca in questi quattro anni). Il Pinocchio alla carriera va però sicuramente a Romney, che ha cambiato opinione su quasi ogni tema importante. Da governatore del Massachusetts ha fatto approvare una riforma sanitaria che è la copia dell’Obamacare. Ora dice che la prima cosa che farà da presidente sarà “rigettare l’Obamacare”. Da governatore del Massachusetts era a favore dell’aborto. Ora non lo è più. Qualche mese fa, di fronte a un gruppo di ricchi finanziatori della Florida, criticava “il 47% di americani che vive alle spalle dello Stato”. In uno degli ultimi comizi, in Ohio, diceva che la sua priorità sono i più deboli. L’attitudine “oscillante” di Romney è stata ben rappresentata dall’autore satirico Bill Maher, secondo cui “entro martedì, Romney insisterà di non volere che un gruppo di vecchi uomini bianchi gli dicano cosa fare della sua vagina”.

UN’IDEA DI AMERICA – In un paesaggio politico così congestionato, polarizzato, estremo, è emersa una visione alternativa d’America? Probabilmente sì. Obama e i democratici sostengono quella che Elizabeth Warren, e poi Obama stesso, hanno definito l’America del “non l’avete costruito da soli”, l’America in cui ognuno ha bisogno degli altri, in cui il “sogno americano” si realizza in un contesto di leggi, regole, strutture, scuole, fogne, strade, culture che danno senso e direzione al singolo. Per Romney, il “sogno americano” è invece soprattutto individualismo, fantasia, libertà di “persone uniche, rette da un’energia unica che vogliono una vita migliore per sé e i loro cari”. Tra poche ore sapremo quale America ha vinto.

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