Le elezioni americane si sono giocate sull’economia: come rimettere in sesto la finanza pubblica del Paese e il ruolo che deve avere lo Stato sociale. Il debito pubblico americano viaggia verso il 100 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) e non si ferma. A politiche invariate, la spesa sanitaria e in particolare il Medicare (la protezione gratuita per tutti gli anziani, ricchi e poveri) crescerà a ritmi esponenziali; i sistemi pensionistici dei dipendenti di molti Stati sono già sull’orlo della bancarotta. I tassi di interesse non potranno rimanere così bassi per sempre, tenderanno invece a salire. E con un debito così alto, anche aumenti modesti si trasformeranno in macigni per i contribuenti. La politica monetaria non potrà aiutare, avendo esaurito da tempo le sue cartucce. La crescita del Pil è discreta ma non sarà sufficiente a ridurre il rapporto con il debito. Obama ha di fronte a sé tre strade. La prima è di fare poco o nulla. Sfiorare ma evitare di cadere nel fiscal cliff , quel «precipizio fiscale» frutto della pericolosa combinazione che si verificherà a fine anno quando termineranno alcune agevolazioni fiscali e contemporaneamente partiranno tagli di spesa automatici. Per evitare la trappola dovrà però affidarsi a qualche aggiustamento marginale; aumentando cioè di molto le aliquote sui più ricchi, ma senza affrontare nessuno dei problemi strutturali della dinamica del debito, consegnando così la «patata bollente» al prossimo presidente. La seconda strada è quella di continuare ad aumentare la spesa pubblica per cercare (probabilmente invano) di accelerare la crescita. Ma sempre per evitare il «fiscal cliff» ciò significherebbe un aumento delle imposte consistente e non solo per quel «famoso» uno per cento di ultra ricchi. Gli aumenti dovranno essere generalizzati e questi ultimi rischiano di aver un effetto recessivo e quindi controproducente. Le conseguenze le stanno sperimentando alcuni Paesi europei, compreso il nostro: tasse più alte, recessione, difficoltà a far quadrare i conti perché il Pil scende e con esso il gettito fiscale. È questo a cui si riferiva Romney quando diceva che con Obama l’America sarebbe finita come certi Paesi europei. Gli effetti espansivi di più spesa pubblica (ammesso che vi siano) sarebbero un fuoco di paglia ben presto compensato dagli effetti negativi. E cioè: più incertezza degli operatori sul futuro fiscale degli Stati Uniti, aumento delle preoccupazioni sul debito e possibili incrementi dei tassi di interesse, associati a instabilità dei mercati finanziari sempre più nervosi. La cosa migliore che Obama può fare per favorire la crescita è dare invece stabilità al quadro fiscale, e «regole» ai mercati finanziari e non. Altre scorciatoie non vi sono. Ed ecco, appunto, la terza strada di Obama: combinare i suoi legittimi desideri di uno Stato sociale relativamente generoso con la stabilità dei conti. Come farlo? Non facile, ma la ricetta è nota. Concentrare la spesa sociale sui veri deboli e non con aiuti a pioggia; riformare la bomba a orologeria di Medicare; aggredire e non posporre il problema dei sistemi pensionistici pubblici disastrati; semplificare infine un sistema fiscale bizantino eliminando detrazioni e sgravi a questo o quel settore solo perché particolarmente ben rappresentato da qualche lobby. Lo spazio c’è, come sostenevano gli economisti di Romney. Come europei, ciò di cui abbiamo bisogno non è di un’America che segua politiche che, nel tentativo di far salire di qualche frazione di punto la crescita per un paio d’anni, compromettano ancor di più la sua solidità fiscale. E per di più inondando il mondo di titoli di Stato Usa, per il momento ancora appetibili, ma non si sa per quanto. Abbiamo bisogno invece di un’America prudente, che guidi il mondo occidentale verso un’uscita dai postumi della crisi con politiche lungimiranti, che non spostino sulle generazioni future un costo fiscale esorbitante. Non vogliamo più un’America spendacciona che si fa finanziare dall’estero. Speriamo che Obama segua la terza strada. I repubblicani avranno la maggioranza alla Camera, quindi senza un accordo bipartisan il presidente Usa non riuscirà a governare da solo e questo è un bene; solo con un solido accordo bipartisan l’America uscirà dalla spirale del debito. Sono fiducioso che i due partiti ritrovino la strada della cooperazione. Era difficile sperare che la seguissero prima di una corsa presidenziale così incerta e contesa, ma ora non c’è altro percorso. L’America ha saputo in passato uscire da situazioni anche più difficili di questa, ma il tempo stringe e il baratro si avvicina.]
Le elezioni americane si sono giocate sull’economia: come rimettere in sesto la finanza pubblica del Paese e il ruolo che deve avere lo Stato sociale. Il debito pubblico americano viaggia verso il 100 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) e non si ferma. A politiche invariate, la spesa sanitaria e in particolare il Medicare (la protezione gratuita per tutti gli anziani, ricchi e poveri) crescerà a ritmi esponenziali; i sistemi pensionistici dei dipendenti di molti Stati sono già sull’orlo della bancarotta. I tassi di interesse non potranno rimanere così bassi per sempre, tenderanno invece a salire. E con un debito così alto, anche aumenti modesti si trasformeranno in macigni per i contribuenti. La politica monetaria non potrà aiutare, avendo esaurito da tempo le sue cartucce. La crescita del Pil è discreta ma non sarà sufficiente a ridurre il rapporto con il debito. Obama ha di fronte a sé tre strade. La prima è di fare poco o nulla. Sfiorare ma evitare di cadere nel fiscal cliff , quel «precipizio fiscale» frutto della pericolosa combinazione che si verificherà a fine anno quando termineranno alcune agevolazioni fiscali e contemporaneamente partiranno tagli di spesa automatici.
Per evitare la trappola dovrà però affidarsi a qualche aggiustamento marginale; aumentando cioè di molto le aliquote sui più ricchi, ma senza affrontare nessuno dei problemi strutturali della dinamica del debito, consegnando così la «patata bollente» al prossimo presidente.
La seconda strada è quella di continuare ad aumentare la spesa pubblica per cercare (probabilmente invano) di accelerare la crescita. Ma sempre per evitare il «fiscal cliff» ciò significherebbe un aumento delle imposte consistente e non solo per quel «famoso» uno per cento di ultra ricchi.
Gli aumenti dovranno essere generalizzati e questi ultimi rischiano di aver un effetto recessivo e quindi controproducente. Le conseguenze le stanno sperimentando alcuni Paesi europei, compreso il nostro: tasse più alte, recessione, difficoltà a far quadrare i conti perché il Pil scende e con esso il gettito fiscale.
È questo a cui si riferiva Romney quando diceva che con Obama l’America sarebbe finita come certi Paesi europei. Gli effetti espansivi di più spesa pubblica (ammesso che vi siano) sarebbero un fuoco di paglia ben presto compensato dagli effetti negativi. E cioè: più incertezza degli operatori sul futuro fiscale degli Stati Uniti, aumento delle preoccupazioni sul debito e possibili incrementi dei tassi di interesse, associati a instabilità dei mercati finanziari sempre più nervosi.
La cosa migliore che Obama può fare per favorire la crescita è dare invece stabilità al quadro fiscale, e «regole» ai mercati finanziari e non. Altre scorciatoie non vi sono. Ed ecco, appunto, la terza strada di Obama: combinare i suoi legittimi desideri di uno Stato sociale relativamente generoso con la stabilità dei conti. Come farlo? Non facile, ma la ricetta è nota.
Concentrare la spesa sociale sui veri deboli e non con aiuti a pioggia; riformare la bomba a orologeria di Medicare; aggredire e non posporre il problema dei sistemi pensionistici pubblici disastrati; semplificare infine un sistema fiscale bizantino eliminando detrazioni e sgravi a questo o quel settore solo perché particolarmente ben rappresentato da qualche lobby.
Lo spazio c’è, come sostenevano gli economisti di Romney. Come europei, ciò di cui abbiamo bisogno non è di un’America che segua politiche che, nel tentativo di far salire di qualche frazione di punto la crescita per un paio d’anni, compromettano ancor di più la sua solidità fiscale. E per di più inondando il mondo di titoli di Stato Usa, per il momento ancora appetibili, ma non si sa per quanto.
Abbiamo bisogno invece di un’America prudente, che guidi il mondo occidentale verso un’uscita dai postumi della crisi con politiche lungimiranti, che non spostino sulle generazioni future un costo fiscale esorbitante. Non vogliamo più un’America spendacciona che si fa finanziare dall’estero.
Speriamo che Obama segua la terza strada. I repubblicani avranno la maggioranza alla Camera, quindi senza un accordo bipartisan il presidente Usa non riuscirà a governare da solo e questo è un bene; solo con un solido accordo bipartisan l’America uscirà dalla spirale del debito.
Sono fiducioso che i due partiti ritrovino la strada della cooperazione. Era difficile sperare che la seguissero prima di una corsa presidenziale così incerta e contesa, ma ora non c’è altro percorso. L’America ha saputo in passato uscire da situazioni anche più difficili di questa, ma il tempo stringe e il baratro si avvicina.
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