Il pubblico che era alla proiezione in anteprima di House of Cards si e’ goduto un primo episodio già stracult, col congressman Frank Underwood del grande stato del South Carolina in stato di grazia, pienamente dedito ad una nuova serie di nefandezze al servizio di un ambizione sempre più smisurata.
Il “pilota” della seconda stagione è infarcito dei colpi di scena ormai requisiti per ogni fiction degna di questo nome. Il divertimento sta nello stare al gioco e in questo caso autori e pubblico sono pienamente complici degli artifici del genere, ammaliati, questi ultimi, dal fascino indiscreto di Underwood/Kevin Spacey che li aspostrofa in confidenza.
Di certo in questo mondo post-Red Wedding (parliamo di Trono di Spade), è un dato di fatto che essere fra i 5–6 personaggi principali di una serie non basta più come assicurazione sulla vita. Vorremmo dire di più ma come è noto nienetemeno che Barack Obama dal suo twitter presidenziale ha emanato un editto anti-spoiler. Lungi da noi la tentazione di alto tradimento televisivo. Basti dire che il mefistofelico Underwood non ha perso il gusto e la vocazione per complotti degni di Cesare Borgia. Non a caso lo showrunner, Beau Willimon, ci ha confessato che nella writers room di House of Cards, il Principe di Macchiavelli è fra i testi più consutati.
In realtà ancora di più si tratta di un personaggio shakesperiano, in particolare Riccardo III, per l’abitudine che ha Underwood di rivolgersi direttamente al pubblico, rompendo ripetutamente il ‘quarto muro’ come avviene nella tragedia elisabettiana, cosi’ quintessenzialmente complottista.
La mitopoietica manichea in America non prevede invece un’innata ammirazione del potere e delle sue occulte macchinazioni, infatti differentemente che in Italia, ad esempio, non c’è una passione naturale per le dietrologie e l’implicito rispetto per l’intrigo ben congnegnato dal tiranno; l’inciucio non è tecnicamente riconosciuto come motore naturale della politica, mentre come e’ noto i “dirty tricks” vengono appaltati all’apparato di sorveglianza e guerre segrete soprattutto all’estero– occhio non vede, cuore non duole.
Per quanto riguarda il potere politico prevale tutto sommato l’utile mistificazione della politica virtuosa – nella narrative, le congiure di palazzo si riferiscono perlopiù semmai alla trame di mafia. La tacita ammirazione dell’intrigo è applicabile a Don Corleone o Tony Soprano ma non tanto alla West Wing della casa bianca, popolata nell’immaginario hollywoodiano da politici sostanzialmente etici.
Ecco invece con Frank Underwood un personaggio che autorizza gli Americani all’amore-odio per un potente congenitamente immorale. Lui e la sua Lady Macbeth, Claire (Robin Wright) esplicitano la politica come esalazione infernale, confermano i peggiori sospetti di qualunque antipolitico del Tea Party e invocano la tacita ammirazione dei macchiavelliani. Canonico “guilty pleasure” insomma per gli spettatori finalmente liberi di indugiare nel gusto della politica senza scrupoli, diametricamente opposta alle virtu’ civiche degli eroi di FrankCapra e dei candidati degli spot elettorali.
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