The Lesson of America

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Un artista di arte contemporanea, il primo credo, vince l’Oscar per il miglior film. Ma la notizia non è proprio questa. La notizia è che ci sono voluti 86 anni perché Hollywood premiasse un film diretto da una persona di colore.

Il razzismo è una bestia dura da ammazzare. Il regista Steve McQueen ha ricordato, ricevendo la statuetta d’oro, che al giorno d’oggi la schiavitù è ancora una tragedia che affligge 30 milioni di persone. «12 anni schiavo» non solo ha fatto la storia di Hollywood ma anche la storia della scuola americana dove il film è diventato un «testo» obbligatorio nel curriculum degli studenti statunitensi. Tutto questo non può, senza voler togliere nulla alla gioia di Sorrentino e al nostro orgoglio d’italiani, non farci riflettere sul fatto che se ai nostri studenti toccasse «La Grande Bellezza», nel programma scolastico, non sarebbe un grande lezione. Non sarebbe una grande lezione perché mostra un mondo che non cambia mentre «12 anni schiavo» sì. Così pur se euforici del successo di un film italiano agli Oscar dopo tanti anni di attesa, dobbiamo un po’ vergognarci che mentre pure Hollywood fa ammenda di un ingiustificabile ritardo, da noi il governo, che sulla carta dovrebbe essere il più innovativo che ci potesse capitare, ha tolto non solo il ministero dell’Integrazione ma anche eliminato il primo ministro nero della storia della nostra Repubblica. Un grande bruttezza. Perché i simboli, nel cambiamento di una società e di una cultura, contano e Cecile Kyenge era un simbolo contro il razzismo dell’estremismo leghista e anche un perbenismo invisibile che riesce a confondere le acque mescolando buonismo con razzismo. Se questo non bastasse a confermare che l’Italia ha qualche problema con le tragedie ed i problemi del mondo contemporaneo, basta dare un occhiata ai primi manifesti del film di Steve McQueen utilizzati per la distribuzione nelle nostre sale cinematografiche. Prima c’era Brad Pitt in primo piano, pur non essendo il protagonista, poi Michael Fassbender. Il vero soggetto ed il vero protagonista del film, la schiavitù e l’attore Chiwetel Ejiofor, sono stati messi in secondo piano. I distributori chiaramente temevano o temono che gli italiani una pellicola pubblicizzata come un film sui neri non lo vadano a vedere. Un timore tristemente vero, confermato anche dalla decisione, superficiale nel migliore dei casi, preoccupante nel peggiore, del nuovo governo di considerare se non inutile quanto meno non prioritario un ministero che si occupi d’integrazione.

Come se non fosse fondamentale per il futuro del nostro Paese affrontare l’integrazione ed il razzismo come punti chiave del nostro sviluppo che non è sempre e solo economico, ma anche culturale e morale. Ancora una volta l’America ci dimostra come gli strumenti della cultura popolare, in questo caso il cinema, possano diventare strumenti per l’educazione dei cittadini del futuro. Un Paese come gli Stati Uniti perennemente proiettato in avanti usa la memoria per costruire la coscienza delle nuove generazioni. L’Italia usa invece il presente come scusa per ricordare melanconicamente ed eternamente celebrare il passato, riflesso incosciente di un improbabile futuro. «La Grande Bellezza» ha vinto l’Oscar perché ha saputo, purtroppo, rappresentare ancora una volta, anche se in modo pregevole, l’irriducibile stereotipo di un’Italia decadente, godereccia e inutile che piace tanto agli americani. «12 anni schiavo» ha vinto l’Oscar perché nel ventunesimo secolo ha saputo trovare una tragedia del passato capace di rappresentare e farci riflettere sulle tragedie del nostro presente. Gli studenti americani sono obbligati a imparare, con tutti i mezzi, la cultura della libertà. I nostri studenti schiavi della bellezza, se gli andrà bene, potranno assistere ad una lezione di folclore comparato.

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