Lo spionaggio della Cia e i segreti di Obama
Accusata di aver spiato il Senato, l’agenzia chiede aiuto al presidente. E Obama deve decidere cosa fare. Se no c’è il rischio che escano nuove rivelazioni…
12-03-201411:30
di Michele Zurleni
Quando si entra nel labirintico gioco di specchi della politica e dello spionaggio c’è il rischio di trovarsi di fronte a una porta che non si apre. La strada giusta era quella accanto, o quella alle spalle. Ma, le ombre e le luci, le immagini riflesse ci hanno depistato. Muovendoci, prima o poi la scopriremo. Comunque, usciremo. Magari dopo che ci avranno indicato un’altro cancello, non quello che stavamo cercando. Il Senato degli Stati Uniti, la Cia e la Casa Bianca sono alle prese con questo gioco. Tocca a noi capire dove stia portando.
Scontro tra il Senato e la Cia
Da ieri, una grave crisi costituzionale s’avvicina a Washington. Dianne Feinstein, democratica, ha accusato la Cia di aver spiato i lavori della Commissione del Senato sull’Intelligence che presiede, di aver tentato di sottrarre documenti e di aver fatto indebite pressioni sul suo staff. Questo è il culmine di un lungo braccio di ferro, durato quasi un anno, tra Langley e l’organismo parlamentare che indaga sulle attività dell’agenzia dopo l’11 settembre. Ma è solo un altro episodio della partita. Non il finale.
L’oggetto del contendere è il rapporto di 6.300 pagine che la commissione ha stilato in tre anni di lavoro, dal 2009 al 2012. L’inchiesta venne completata nel dicembre del 2012 e approvata con un voto a maggioranza: 9 voti a favore, 6 i contrari. Dopo questa votazione, la Cia ha inviato un memorandum di 120 pagine per confutare la tesi pilastro del rapporto: anni di metodi coercitivi nella lotta al terrorismo non hanno prodotto una sola informazione utile per l’intelligence. Sequestri, torture, imprigionamenti: tutto inutile. Per sconfiggere il nemico c’è (stato) bisogno di altro.
Il rapporto sulle prigioni della Cia
La commissione si è sempre rifiutata di modificare questa impostazione. E lo ha fatto sulla base di migliaia di documenti della stessa Cia contenuti in un database riservatissimo. Nomi, date, circostanze, metodi usati per gli interrogatori. Tutte carte che avrebbero dovuto essere in mano solo i vertici della Central Intelligence Agency e che invece erano finiti nei pc dei senatori. Le pressioni sono iniziate allora. Langley ha cercato di avere indietro quei documenti, dicendo ai membri dello staff della commissione che avevano compiuto un reato nel momento in cui erano entrati in possesso di quelle carte. Lo scontro è andato avanti sotterraneo fino a quando Dianne Feinstein ha deciso di renderlo pubblico.
Questo è avvenuto perché siamo vicini alla diffusione del rapporto (finora) segreto della commissione del Senato sulla Cia. L’annuncio che sarebbe stato reso pubblico è di diversi mesi fa. Barack Obama si è detto d’accordo. Per Langley, un’altra complicazione. Se il Grande Capo ha dato il segnale verde, niente può più fermare la macchina che, alla fine, permetterà all’opinione pubblica americana di sapere cosa ha realmente fatto la Cia negli anni della War on Terror.
Nessuno ne conosce i dettagli – a parte la Cia e i redattori -, ma tutto fa pensare che il rapporto riveli fatti che l’agenzia avrebbe voluto volentieri tenere nascosti. I rapimenti di presunti terroristi, gli interrogatori e le torture, quello che avveniva nelle prigioni segrete della Cia. Da quello che si è compreso, quelle quasi 4.000 pagine, indicano responsabilità ben più gravi, atti ben più brutali rispetto a quello che si è sempre pensato (o si è saputo) finora.
E’vero che, appena insediato e dopo aver firmato l’ordine esecutivo che metteva fine alle torture negli interrogatori, Barack Obama aveva promesso che nessun funzionario del’intelligence sarebbe stato mai perseguito per le operazioni compiute sotto le direttive della precedente amministrazione, quella di George W. Bush. Ma, è anche vero che la diffusione completa del rapporto e le sue conclusioni sarebbero dei duri colpi per Langley. Molto duri. Tali di minarne la credibilità.
La Casa Bianca e i segreti dell’attuale guerra al terrorismo
La Casa Bianca vuole rimanere a tutti i costi fuori dallo scontro tra il Senato e la Cia. Ma, in realtà, si trova proprio in mezzo. John Brennan, l’uomo che Obama ha voluto alla guida dell’agenzia, dopo la denuncia di Dianne Feinstein avrebbe detto: “Se ho fatto qualche cosa di sbagliato, vado dal presidente e gli spiego cosa ho fatto. Sarà lui a dirmi se devo restare o se devo andarmene”.
Le parole di Brennan, l’architetto della guerra con i droni, il detentore dei segreti delle cyberwars americane, non suonano rassicuranti per la Casa Bianca. E’un modo per chiedere a Obama di schierarsi nello scontro con il Senato. Contro o a favore della Cia.
In ogni caso, per lui sarebbe un problema. Se Obama appoggia l’Agenzia, rischia di essere accusato di voler legittimare i suoi metodi durante gli anni della Guerra al Terrore. Se, invece, toglie la sponda a Langley, sconfessa l’uomo che lui ha chiamato a guidare la Cia (e quindi sconfessa la sua stessa politica di sicurezza) e apre il fianco a qualche velenosa vendetta da parte di settori dell’intelligence.
Non sarebbe la prima volta. Non è un caso che molti analisti abbiano tirato fuori un’analogia storica: la fuga di notizie sull’Iraq del 2004 che tanto misero in imbarazzo George W. Bush. Erano opera della Cia, che voleva mettere in imbarazzo l’uomo che aveva riversato su Langley la responsabilità delle false informazioni sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Perché, in realtà, la posta in gioco, l’oggetto dello scambio tra la Casa Bianca e la Cia, non sono le attività dell’Agenzia durante gli anni di Bush, ma quelle portate avanti sotto l’amministrazione Obama. Non ci sono presidenti esenti da ombre quando si parla di intelligence. Neppure nel caso dell’attuale.
Sono molti i segreti della guerra dei droni in possesso di Langley. Gli omicidi mirati, i civili colpiti, le operazioni lanciate per sbaglio, le decisioni del presidente. Se si devono rivelare le circostanze del passato , perché allora non farlo anche con quelle del presente? Il gioco di specchi ci spinge verso Capitol Hill, ma per risolvere il caso Senato-Brennan la via giusta da seguire sembra essere quella che conduce in Pennsylvania Avenue.
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