Brooks, liberalismo
dal volto umano
di Stefano Magni
13 giugno 2014ESTERI
Gli Stati Uniti sono cascati, da un secolo, in uno strano paradosso. La gran maggioranza della loro popolazione è favorevole, almeno a grandi linee, ad un sistema di libero mercato, con un ruolo dello Stato (e specialmente di quello centrale, del governo federale) ridotto al minimo indispensabile. Nonostante il grande cambiamento culturale apportato dall’immigrazione dall’America Latina e un ottantennio abbondante di cultura progressista dominante, gli americani sono ancora prevalentemente anti-statalisti, come nelle loro origini. E però, nella maggior parte delle amministrazioni e sotto qualunque maggioranza, i poteri del governo federale continuano a crescere, crescere e crescere ancora, come se fosse un meccanismo che ormai procede in automatico, indipendentemente dalla volontà degli elettori.
Questo paradosso è stato sviscerato, analizzato e affrontato di petto da Arthur Brooks, presidente dell’American Enterprise Institute, il più antico think tank conservatore degli Usa (fu istituito nel 1938, ancora negli anni di Roosevelt e del New Deal). Ieri sera, a Milano, ospite dell’Istituto Bruno Leoni e in compagnia del direttore de “Il Foglio”, Giuliano Ferrara, Brooks ha presentato la traduzione italiana di “The Road to Freedom” (La via della libertà, Rubbettino, 2014). Il titolo, sia nella sua versione inglese (scritta due anni fa) che in quella italiana, è una citazione di un grande classico del liberalismo: “La via della schiavitù”, dell’economista e filosofo, premio Nobel per l’economia, Friedrich August von Hayek. “La via della schiavitù” fu scritto nell’ora nera della libertà, nel pieno della Seconda guerra mondiale, e la sua pubblicazione sensibilizzò sui rischi di una degenerazione totalitaria, non solo in caso di vittoria dell’Asse o dell’Urss, ma anche in caso di ulteriore statizzazione e nazionalizzazione dell’economia delle società occidentali. “La via della libertà” parte dal problema di una società occidentale, americana, già in gran parte statizzata e affronta il difficile argomento di come liberarla di nuovo.
La scommessa di Brooks consiste in un cambio di linguaggio e di passo. I conservatori, i liberali classici, i libertari, tutti coloro che, in modo più o meno radicale, difendono il libero mercato, usano la testa e non il cuore. Argomentano esponendo cifre, statistiche e ragionamenti filosofici logici per dimostrare di avere ragione. I progressisti, al contrario, promuovono il loro sistema mirando al cuore della gente, usando argomenti morali, senza soffermarsi troppo sui dati. Il confronto fra un candidato come Obama e uno come Romney è stata la dimostrazione ulteriore di questo principio. Il “doing math” ripetuto più volte dal candidato vicepresidente Paul Ryan, non ha attecchito quanto il “forward” enfatico di Obama. Nonostante gli errori in politica estera e i magri risultati economici, il profeta del progressismo ha vinto di nuovo. Benché ancora favorevoli alla libertà, gli americani, al momento della scelta, optano per chi la limita a favore della “giustizia sociale”.
Quel che si ripropone Brooks è di colpire il cuore della gente con argomenti morali a favore del libero mercato. La felicità, innanzitutto: solo l’indipendenza e il successo nel proprio lavoro di libero produttore permette di essere autenticamente felice (in termini economici, ovviamente). La dipendenza dai soldi di qualcun altro è invece sempre deleteria, anche in termini di serenità e affermazione personale. Secondo: la giustizia sociale. Solo un sistema di libero mercato è in grado di distribuire ricchezze in base al merito e non all’arbitrio di un potente di turno. Terzo: l’emancipazione dei poveri. Dati alla mano, Brooks dimostra come circa 2 miliardi di abitanti del pianeta siano usciti dalla povertà assoluta solo grazie alla globalizzazione. E anche nelle società più libere, l’ascensore sociale è decisamente più rapido in quelle in cui c’è maggior liberismo rispetto a quelle (come l’Italia) in cui lo Stato è onnipresente. Brooks dedica la seconda parte del suo volume al modo di uscire dallo statalismo attuale per giungere a una società più libera. Soprattutto sottolinea quale debba essere il ruolo dello Stato: niente di più rispetto a quel che fa un’assicurazione. Oltre a giustizia, ordine pubblico e difesa, deve assicurare una copertura (“rete”) sociale minima indispensabile, affinché nessuno resti indietro nella sua salute e nelle sue necessità basilari (abitazione e alimentazione). Il resto è bene affidarlo alla competizione fra privati nel mercato libero.
Sembra facile. Ma provate a vedere che fine fanno i partiti italiani che propongono un programma del genere.
Leave a Reply
You must be logged in to post a comment.