Disgelo con l’Iran. L’ultima chance di Obama
03/11/2014 ROBERTO TOSCANO
Non c’è molto ottimismo, alla Casa Bianca, sui risultati delle elezioni di Midterm di domani. E ancora più forte è il pessimismo che prevale fra i candidati del Partito Democratico, palesemente preoccupati di essere abbandonati dall’elettorato come conseguenza della forte perdita di consensi di Barack Obama e della sua presidenza. Il partito è chiaramente sulle difensive.
E la maggioranza dei suoi candidati ha evitato – nei discorsi, nei dibattiti, e nel materiale elettorale da loro diffuso – di sottolineare la vicinanza con il Presidente, evitando anche di chiedere, a differenza di quanto avviene quando un Presidente è popolare, un suo intervento di sostegno.
Le sorti dell’ultimo quarto del doppio mandato di Obama dipenderanno in gran parte dal risultato di domani, e in particolare da come andranno le cose per il Senato, dove attualmente i Democratici hanno 55 seggi contro i 45 del Partito Repubblicano. Al Senato sono in ballo 36 dei 100 seggi, e i sondaggi fanno emergere il seguente quadro: 11 sono dati come certi per il Partito Democratico e 16 per il Partito Repubblicano, mentre l’esito per 9 seggi è considerato incerto. Il fatto è che ai Repubblicani basterebbe aumentare di 6 seggi la loro presenza in Senato per acquistare la maggioranza, mettendo così in minoranza il partito del Presidente in entrambi i rami del potere legislativo.
E’ interessante, a questo punto, chiedersi quali sarebbero le ripercussioni di questa possibile (anzi, probabile sebbene non del tutto certa) svolta politica sulla politica estera di Washington.
Certo, è importante ricordare che il sistema politico americano è presidenziale e non parlamentare, e che non è la prima volta che un Presidente si trova a dovere fare i conti con un Congresso dominato dall’opposizione, una situazione che impone compromessi e negoziati fra Casa Bianca e Capitol Hill, ma che non comporta necessariamente una paralisi governativa.
Questo in teoria, ma nella pratica va tenuta presente l’evoluzione – ma sarebbe forse più giusto parlare di involuzione – del sistema politico americano nel senso di una contrapposizione totale, di un muro contro muro che rende molto difficile raggiungere quelle mediazioni che permettano il funzionamento del sistema anche in presenza di una divergenza fra potere esecutivo e potere legislativo.
Il cambiamento, l’inasprimento, è dovuto a due fattori tra loro collegati. Da un lato la radicalizzazione del Partito Repubblicano, all’interno del quale l’ala moderata è stata eliminata, o silenziata, dall’egemonia ideologica del «Tea Party», un movimento in cui si combinano neoliberismo, estremismo anti-Stato e posizioni radicali su temi quali omosessualità o il diritto dei cittadini ad armarsi, anche con armi da guerra. Vi è, nei confronti del Presidente Obama, un rigetto che è di natura politica, con l’accusa di essere non solo «liberal» (come è effettivamente, seppure nella versione moderata e centrista), ma addirittura «socialista», un vero e proprio insulto nella terminologia politica americana. Ma vi è anche, inconfessato, il rigetto che dipende non dalla sua politica, ma dalla sua razza, e che fa sì che fin dall’inizio, ancora prima che Obama mettesse in atto il suo programma politico, in certi ambienti la sua stessa presenza alla Casa Bianca fosse considerata illegittima, insopportabile.
Non serve quindi, di fronte a questa deriva politica, che grazie a Obama si sia fronteggiata una spaventosa crisi economica, e che oggi il Paese stia crescendo a ritmi di tutto rispetto. Non serve che sia stato sotto la sua presidenza che il Nemico Numero Uno dell’America, Osama bin Laden, sia stato ucciso in un’operazione di commando dei Navy Seals.
Una parte non insignificante dell’elettorato americano non vede l’ora che Obama se ne vada, e coglierà anche l’occasione di queste elezioni per assicurare che nell’ultima parte della sua presidenza lui finisca per essere virtualmente congelato dal punto di vista politico, un’«anatra zoppa».
In politica estera il tema politicamente più significativo è quello del negoziato nucleare con l’Iran. Negli ultimi giorni sono molti i segnali che fanno ritenere che Obama abbia deciso di spingere per una soluzione, portando a casa un risultato importante per la stabilità del Medio Oriente e per far registrare un significativo successo per la sua presidenza. Certo un Senato repubblicano renderebbe ancora più difficile per il Presidente fare accettare un accordo nei cui confronti il Congresso, notoriamente filo-israeliano (o meglio, filo-Likud), ha non da oggi alzato un forte fuoco di sbarramento. Va detto però che le cose risulterebbero ancora più difficili, ma non impossibili. Al Presidente rimangono strumenti come il veto presidenziale e la possibilità, in particolare, di concedere esenzioni, «waivers», in tema di sanzioni, permettendo così di evitare di passare dalle forche caudine di un Congresso ostile.
Ma emerge qui quello che è probabilmente il limite più reale e profondo di Barack Obama come Presidente: una sua quasi compulsiva ricerca di dialogo e compromesso e lo sforzo di presentarsi sempre come Presidente di tutti gli americani, e non di una sola parte. Atteggiamenti che nell’America di una volta – quella in cui la politica alternava scontro a compromessi bipartisan – erano qualità, ma che oggi sono limiti devastanti, dato che per avere un dialogo è indispensabile che siano presenti interlocutori ideologicamente e politicamente disponibili.
Il negoziato con l’Iran (con le sue importanti ripercussioni sull’intera questione medio-orientale) si avvicina alla scadenza del 24 novembre, e sarà probabilmente per Obama l’ultima occasione per evitare che il giudizio storico sulla sua figura di Presidente si riassuma, tristemente, nella contraddizione fra le sue grandi qualità intellettuali e umane e una sostanziale mancanza sia di talento sia di coraggio politico.
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